Opinioni & Commenti
Documenti della Chiesa: il peso dell’autorità nell’orizzonte del dialogo
di Giuseppe Savagnone
Sarebbe poco realistico e ancor meno evangelico negare che un diffuso senso di perplessità, talvolta di disagio, ha accolto le ultime pronunzie dei vertici della Chiesa in materia di liturgia (il Motu proprio di Benedetto XVI che autorizza l’uso del messale di Pio V) e di ecclesiologia (il documento della Congregazione per la Dottrina della fede che risponde ad alcuni quesiti riguardanti tale ambito).
Questi documenti meritano ben altri approfondimenti. Qui vorremmo solo limitarci ad alcune osservazioni.
La prima, preliminare, è che la logica della comunità ecclesiale non è, come nelle democrazie moderne, quella del consenso. La responsabilità davanti a Dio e ai fratelli di chi porta non per sua scelta il peso dell’autorità può in alcuni casi portarlo a prendere decisioni che non collimano con le aspettative e con il parere della maggioranza. Ciò non significa che possa ignorarli. E il Papa, nella lettera con cui presenta il suo Motu proprio ai vescovi di tutto il mondo, appare chiaramente consapevole della «opposizione dura» a cui esso va incontro e si sforza di spiegare le ragioni che lo hanno spinto, malgrado ciò, a promulgarlo egualmente. Non siamo davanti a un cieco arbitrio, che escluderebbe l’ascolto, ma a una decisione che rimane nell’orizzonte del dialogo, anche se alla fine l’onere della decisione spetta a chi ne ha il mandato. Se ne ha una conferma nell’invito finale ai vescovi a «scrivere alla Santa Sede un resoconto», dopo tre anni dall’entrata in vigore del Motu proprio, per segnalare i problemi e far sì che possano essere eventualmente cercate delle soluzioni.
La seconda osservazione riguarda l’intenzione dei documenti in questione. Entrambi muovono esplicitamente dall’intento di sottolineare la continuità della tradizione cattolica, l’uno ribadendo che «il Concilio Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato» la dottrina sulla Chiesa, «ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente»; l’altro ricordando (nella lettera di presentazione) che «nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura». Si può restare convinti come chi scrive che il modo scelto per evidenziare tale continuità esponga a seri rischi il dialogo ecumenico e l’unità delle comunità ecclesiali. Ma sul valore additato non si può non convenire. Perciò sarebbe assurdo tradurre l’atto di franca e serena obbedienza che viene chiesto oggi ai cattolici in un sordo mugugno ed incrociare le braccia in attesa del peggio. La sola reazione giusta è quella di mantenere aperte le domande sul piano della riflessione critica e di collaborare al tempo stesso con tutte le proprie forze perché i temuti pericoli non si realizzino.
La terza osservazione riguarda i possibili guadagni che da questo spirito di obbedienza possono scaturire. Non si tratta solo di impegnarsi a evitare dei danni, ma di prendere sul serio delle indicazioni che vengono dal successore di Pietro. Senza chiudere gli occhi sui problemi che ci sono , si può e si deve tuttavia chiedersi se, a fronte di equivoci teorici e di abusi pratici del periodo post-conciliare, che a volte si ripresentano ancora oggi, questo duplice autorevole richiamo non sia un’occasione, comunque, per mettere meglio a fuoco le linee teoriche e pratiche di un autentico dinamismo ecclesiale. Nella certezza che anche il Papa, da parte sua, prega insieme a noi perchè questo dinamismo sia sempre più pieno.