Opinioni & Commenti
Il carcere della speranza non diventi della disperazione
di Andrea Fagioli
Chi non è mai entrato in un carcere, dura forse fatica a capirlo. Ma chi c’è entrato, anche solo per motivi professionali, e ha sentito chiudersi dietro, una dopo l’altra, sette porte blindate, ha parlato con i detenuti o visto una cella, capisce meglio che quando si parla della cosiddetta «Legge Gozzini» non lo si può fare sull’onda dell’emozione o dell’indignazione.
Il dibattito su questo testo, che porta il nome del senatore fiorentino Mario Gozzini e la data 10 ottobre 1986, non si è mai placato e si è riacceso dopo la rapina dei giorni scorsi al Monte dei Paschi di Siena da parte di un brigatista in semilibertà (vedi notizia).
La «Legge Gozzini», basata sul valore rieducativo della pena, prevede, tra l’altro, permessi premio e attenuazioni della detenzione (tra cui la semilibertà) ai condannati che hanno scontato una certa parte della pena, che hanno tenuto una buona condotta e non risultano al momento di particolare pericolosità sociale. Le decisioni in merito spettano al magistrato di sorveglianza, sentito il direttore dell’istituto.
Nel caso del brigatista (responsabile di sei omicidi, con tre ergastoli sulle spalle senza mai rinnegare il passato, pronto a uccidere nuovamente se non lo avessero fermato in tempo) si può ritenere che non sia stata valutata la pericolosità sociale e il magistrato abbia gravemente sbagliato. Ma da qui a buttare a mare la «Legge Gozzini» ce ne corre.
Stesso discorso per l’indulto (concesso nel luglio del 2006 dopo che anche il Papa lo aveva invocato sei anni prima in occasione del Giubileo), che ha permesso di alleviare la sofferenza dei detenuti dovuta al sovraffollamento delle carceri, anche se poi alcuni ci sono rapidamente tornati.
La nostra Costituzione è molto chiara nel vietare che le pene detentive siano contrarie alla dignità della persona e nell’aggiungere che tali pene devono essere rivolte alla rieducazione, al recupero, al reinserimento.
C’è un concetto che non può essere dimenticato: è quello di «integrazione», che in ambito penitenziario significa reinserimento lavorativo, formazione professionale, strutture di prima accoglienza dopo l’uscita dal carcere, possibilità di un pieno recupero dei diritti di cittadinanza.
E le cose potrebbero già andare diversamente se tutti i detenuti, oltre a non vivere nell’affollamento, avessero la possibilità di lavorare. La carcerazione senza lavoro diventa più sofferta, crea disagi e spinge all’ozio.
Il vescovo emerito di Livorno, Alberto Ablondi, raccontava la confessione di un detenuto: «È tanta la sofferenza di non poter far niente che a volte mi tengo la testa tra le mani per evitare che vada in pezzi».
La privazione della libertà non sarebbe così grave se non fosse accompagnata dalla privazione della possibilità di lavorare.
Durante una visita al carcere della Ranza, a San Gimignano, un detenuto che ebbe un lungo contatto epistolare con il nostro giornale, ci disse: «Siamo uomini stanchi della vita. Ma anche noi abbiamo diritto ad avere una speranza».
Come tutte le leggi, anche la «Gozzini» può essere migliorata, ma attenzione che il carcere della speranza non diventi il carcere della disperazione.
Don Averardo Dini, nel suo libro Indimenticabili presentato nei giorni scorsi in Consiglio regionale, ricordando la figura di un cappellano del carcere per eccellenza qual era don Danilo Cubattoli (per tutti don Cuba), scrive che «vedeva quelle persone (i carcerati) come un mosaico i cui tasselli erano saltati in aria e che occorreva aiutare a raccogliere e riproporre nel loro posto così che potesse tornare in bella vista la loro primitiva e originale bellezza».