Opinioni & Commenti
Caso Eluana e testamento biologico presunto: l’arbitrio della morte facoltativa
di Giuseppe Anzani
Eluana Englaro, chi non la conosce, chi non le vuol bene? La sua storia ha commosso tutti, la sua foto di quando aveva vent’anni ed ebbe quel terribile incidente stradale è entrata in tutte le case. Si è occupata di lei la magistratura, con nove pronunce, due delle quali della cassazione; si è occupato di lei il parlamento, fino a parlare di conflitto di attribuzioni; ma soprattutto si va occupando necessariamente di lei e della sua sorte, oltre le riflessioni giuridiche, scientifiche ed etiche, il cuore e la coscienza nostra, di tutti.
Eluana ha avuto un grave trauma cranico, e vive da 16 anni in quello che i medici chiamano «stato vegetativo persistente» (che non va confuso con il coma); cioè non risponde agli stimoli, non dà segno di consapevolezza o di contatto con l’ambiente, alterna stati di sonno e di veglia ma senza apparente coscienza, non può bere o mangiare da sé e viene nutrita col sondino, accudita nelle funzioni fisiologiche; ha conservato le funzioni del tronco encefalico che consentono la vita. Eluana è viva, Eluana è una persona viva: con una tremenda disabilità, ma viva. Per continuare a vivere ha bisogno che non cessi l’alimentazione, che non può darsi da sé. Se non le si dà più da bere e da mangiare, muore di sete e di fame in due settimane.
Questa sorte è ciò che sembra prenotato in base a un decreto della Corte di appello di Milano, contrario a tutti gli altri precedenti. I giudici dicono per la verità che loro non hanno il potere di «far staccare il sondino», ma che il papà di Eluana è autorizzato a farlo quale suo tutore, perché lo stato vegetativo è irreversibile e perché Eluana avrebbe voluto così.
Per capire come il ricorso alla giurisdizione abbia prodotto questa possibile vigilia di morte per sete e per fame (ma il decreto è ancora soggetto a impugnazione del pubblico ministero, e dunque non è l’ultima parola) dobbiamo riprendere il percorso giudiziario dalla tappa iniziale del 1999, quando il papà di Eluana chiese al tribunale di Lecco che la figlia fosse lasciata morire. Il tribunale respinse l’istanza, essendo fondamentale il diritto alla vita; la Corte di Milano confermò. Quattro anni dopo l’istanza fu rinnovata, e nuovamente respinta dal tribunale e dalla corte; intervenne inoltre anche la cassazione, nel 2005, a rammentare che Eluana aveva un interesse personale che il padre-tutore non poteva assorbire, sicché doveva essere assistita da un curatore. Terzo atto: nominato il curatore, di nuovo la Corte di Milano rifiutò di autorizzare la morte di Eluana. Ma il giro di boa avvenne il 16 ottobre 2007, quando la cassazione rispedì gli atti a Milano dicendo che si poteva autorizzare se ricorrevano due condizioni: lo stato «irreversibile», senza la minima possibilità di un qualche recupero della coscienza; e l’accertamento della «voce del paziente medesimo», cioè della sua volontà, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni, o anche dalla sua personalità, dal suo «stile di vita» e dai suoi convincimenti, in base a elementi di prova chiari, univoci e convincenti.
La corte di Milano ha detto di sì: se abbia visto giusto o sbagliato cambiando parere rispetto a quello che aveva sempre detto prima può essere ancora sottoposto a giudizio; fatto sta che per lei il padre tutore è autorizzato a staccare il sondino che dà acqua e cibo a Eluana. Staccare il sondino vuol dire farla morire di sete e di fame. La sostanza è questa, sotto la coperta dei sedativi.
Si profila dunque l’immagine di una via giudiziaria all’eutanasia? Il rischio c’è, e va affrontato con serietà. Sul piano giuridico-esegetico vanno sottoposti a critica i principi enunciati dalla cassazione dell’ottobre 2007, quando obliquamente allacciano al criterio del consenso del paziente alle terapie (e la nutrizione non è neppure una terapia, ma una necessità comune) il rifiuto presunto del paziente privo di coscienza; e per giunta esprimibile da un soggetto diverso da lui; e per giunta desumibile da interpretazioni sulle sue manifestazioni passate, o persino dal suo «stile di vita», cioè da elementi di incerta lettura.
Si è inventato, così, una specie di «testamento biologico presunto», fuor di regola di legge, e se ne fa dipendere la vita o la morte. Si è ammessa scelta di vita o di morte consegnata alla volontà di un terzo soggetto «autorizzato»: ma ci pensate a che cosa vuol dire «autorizzato»?
Vuol dire che se vuol far vivere fa vivere, ed è giusto così e nessuno gli dice niente; se vuol far morire fa morire ed è giusto così, nessuno gli dice niente. Ma che cosa è giusto, nell’immagine della morte facoltativa, della morte ad nutum, dell’equivalenza giuridica tra il far vivere e il far morire?
Ricostruire la visione della legge attraverso la lettura della giurisprudenza discorde (sono giudici anche tutti quelli che nella vicenda Eluana hanno pronunciato otto volte in difesa della vita) sembra a volte un ricercare il filo d’Arianna che presiede alla conoscenza del diritto nel suo profilo ultimamente umano, civile, orientato al bene. Orientato all’amore della vita, non sedotto dalle ombre della morte che troncano le cure fra noi.