Opinioni & Commenti

Così la Cina si guadagna il benvenuto nel club delle grandi potenze

di Franco Cardini

Le polemiche non servono (quasi) mai a niente. O perlomeno, sono di solito dei puri fattori di confusione quando si cerchi di capire come davvero stanno le cose. È ad esempio ovvio che il governo della Repubblica Popolare Cinese annette grande importanza al fatto che le Olimpiadi del 2008 vengano ospitate nella sua capitale, ma che al tempo stesso assiste non senza inquietudine all’invasione sul suo suolo, a contatto con i suoi cittadini-sudditi, di tanta gente che viene da fuori, che importerà idee e atteggiamenti pericolosi, che farà commenti e indurrà i cinesi a farne. Nel tardo Trecento, dopo essersi liberati dagli invasori mongoli che peraltro si erano rapidamente sinizzati, la Cina degli imperatori Ming si chiuse su se stessa: ma era un intero mondo, un impero sterminato, e «chiudersi» significava semplicemente escludere da sé ogni influenza che poteva venire dal di fuori. Solo che, allora, essa rappresentava il livello di civiltà più alto al mondo: chiudersi su se stessa significava soltanto escludere dei barbari.

Diversamente andarono le cose nel corso dell’Ottocento, quando lo scrigno cinese ermeticamente chiuso fu aperto a forza dai «barbari dal naso lungo» provenienti dall’Europa e dall’America. C’erano stati, certo, i gesuiti e i mercanti portoghesi e olandesi, che avevano avuto una buona presenza a corte o avevano popolato i margini portuali del Celeste Impero: ma ora bisognava aprire l’impero al contagio. I risultati furono il crollo dell’impero stesso, la modernizzazione-occidentalizzazione forzata, un regime nazionalista autoritario, l’invasione giapponese, la guerra civile e un regime comunista passato dallo stalinismo alla «rivoluzione culturale» che nihilisticamente infierì sia sui risultati dell’occidentalizzazione, sia sul passato storico autoctono della Cina stessa. Oggi, dopo l’ultima chiusura maoista, il paese si sta di nuovo aprendo ai nuovi «barbari dal naso lungo».

Ma le condizioni sono nel frattempo cambiate. I cinesi dispongono di una forte élite di executive men, di diplomatici, di uomini d’affari e di studenti che conoscono bene l’Occidente e ne parlano una, due o più lingue. E mentre il mondo europeo e quello statunitense danno vistosi segni di stanchezza e di crisi, la Cina li assale con la sua esuberanza demografica, la crescita vertiginosa del suo Pil, i suoi massicci crediti nei confronti di molti paesi occidentali (a cominciare dagli Stati Uniti d’America), il suo dinamismo economico e produttivo, la sua spregiudicatezza nei confronti dell’ambiente e dei diritti umani, il suo piglio da nuova e decisa potenza mondiale che non è forse ancora al livello della superpotenza sul piano militare ma l’ha già per più versi raggiunta e superata su quello delle dinamiche sociali, della rapidità di sviluppo tecnologico, dell’arditezza delle strategie aggressive volte ad appropriarsi delle materie prime che più le stanno a cuore, per ora soprattutto il petrolio.

La Cina guarda all’Europa come a un interlocutore politicamente timido e infido, ma economicamente valido e ben disposto; punta a stabilire e a sviluppare buoni rapporti politici e forse alleanze militari almeno difensive con la Russia, l’Iran, alcuni paesi dell’America latina. Gli Stati Uniti, che da quasi due secoli proibiscono all’Europa di mettere (o di rimettere) piede politicamente parlando nel sud del continente americano e che hanno enunziato al riguardo fin dal 1823 la «dottrina Monroe» dell’America agli americani, avevano accolto nell’Ottocento l’immigrazione di poveri cinesi impiegati nella costruzione delle ferrovie e nel lavoro delle lavanderie: ora invece assistono con nervosismo allo sbarco di capitali e di tecnocrati cinesi dal Venezuela all’Argentina, mentre anche l’Africa va rapidamente sinizzandosi sotto il profilo dei capitali, dei rapporti economici e finanziari, delle tecnologie, degli scambi commerciali, delle joint adventures.

Alla Cina le Olimpiadi interessano come nuovo modo d’impadronirsi in qualche modo delle categorie mentali ed espressive dell’Occidente. Sia l’antica cultura imperiale, sia la cultura ufficiale d’un comunismo ch’è rimasto tale sotto il profilo della disciplina e del controllo sociale per quanto si sia evoluto sotto quello economico e tecnologico, ignorano il linguaggio olimpionico e tutto quel che lo riguarda: i rituali di pace e di fratellanza, il rapporto con la Grecia classica, la competizione fine a se stessa.  Che le Olimpiadi si svolgano a Pechino ha un solo significato: che la Cina è ormai «benvenuta nel Club», che è una delle grandi potenze mondiali, che sta aspirando a diventare addirittura la prima del globo. Qualcuno ha cercato di farle rotolare tra i piedi lo «scandalo tibetano»: ch’è stato subito messo a tacere. Un conto è formulare qualche protesta, un altro opporsi a un paese dalla torrenziale ricchezza e dalle ancor più torrenziali potenzialità. I nostri ceti dirigenti sanno che con la Cina si possono fare ormai ottimi affari: e non sono per nulla disposti a rinunziarvi per questioni di principio come la libertà dei popoli, i diritti civili, le fine delle persecuzioni religiose eccetera. Ecco perché, se con limpido cinismo il governo cinese (preoccupato delle sue ragioni interne d’ordine pubblico, e che già ha messo in conto qualche inevitabile incidente) ha annunziato che non sarà concesso ai graditi ospiti di portarsi dietro certe pubblicazioni, di ostentare certi simboli e nemmeno di avere su di sé dei fischietti, i graditi ospiti – che in altre circostanze avrebbero starnazzato all’attentato alle loro libertà, alla loro dignità eccetera – in questo caso  abbozzano e stanno al gioco, salve le solite proteste formali che lasciano esattamente il tempo che trovano. L’Occidente è abituato a pensare che tutto ha un prezzo, gli uomini come le idee: e che  le questioni di principio sono un lusso troppo caro per potersele permettere quando l’interlocutore è troppo potente. Raccontiamocela tra noi, la storiella  delle nostre specchiate virtù civili: ma quando c’è da guardar sul serio al domani e al portafogli, il discorso cambia. Siamo seri, perdinci: e poi, davvero c’è qualcuno che abbia a cuore i tibetani più dei palestinesi o degli afghani o delle genti del Mato Grosso che rischiano la fame perchè il governo brasiliano sta avviando una politica di estensiva coltivazione delle piante destinate agli agrocarburanti? Quel che sta accadendo in Cina dimostra non di che pasta sono fatti i cinesi, ma di che pasta siamo fatti noi.

In altri termini: se davvero vogliamo protestare contro chi viola i diritti umani, accomodiamoci. Cominciando però col persuadere i nostri politici, i nostri maghi della finanza, i nostri imprenditori. E ben sapendo che, quanto a calpestare i Diritti dell’Uomo, non lo fa solo la Cina comunista con i tibetani: lo fanno gli americani a Guantanamo non meno che in Iraq e in Afghanistan, lo fa la Russia in Cecenia, lo fanno i turchi con i curdi, lo fa Israele con i palestinesi, lo fanno i kosovari albanesi contro i kosovari serbi, lo fanno in Sudan (e non solo) contro i cristiani, lo fanno in India contro i musulmani, lo fanno in Brasile contro quel che resta degli indios autoctoni, lo fanno (o lo hanno fatto fino a ieri) gli australiani contro gli aborigeni, lo fanno molti stati africani nei confronti della loro stessa gente, lo fanno perfino certi comuni della penisola nei confronti degli immigrati.  E allora, perché prendersela con le violazioni cinesi prima e piuttosto che non con le altre? Perché c’è a portata di mano la coincidenza olimpionica? O perché attaccar la Cina può essere più politically correct piuttosto che non attaccare la Russia o l’America? O perché serve come moneta di scambio per patteggiare poi da posizioni migliori con un potente interlocutore economico-commerciale-finanziario, fra l’altro creditore per  milioni di dollari degli stessi Stati Uniti?

Riflettiamo su queste cose. E intanto, se davvero siamo interessati ai diritti umani, teniamo presente che Pechino subirà un’«invasione barbarica» di turisti stranieri di portata mai vista fino ad ora. Gente che, anche se e quando non parlerà direttamente di politica, sarà comunque portatrice di idee, istanze, bisogni e punti di vista nuovi per chi sia nato e sempre vissuto sotto le dittature maoista e postmaoista ed estranei se non «avversi» rispetto al genere di vita che esse hanno imposto. Sarà davvero un male, questo, per la libertà? Gioverà più o meno ai diritti umani di quanto avrebbe loro giovato un boicottaggio delle Olimpiadi? Queste sono le domande effettive, cui dobbiamo concretamente rispondere: altrimenti, è troppo facile e comodo ripulirsi la coscienza facendo i duri-e-puri.