Opinioni & Commenti
Bioetica: quando si muore?
di Marco Doldi
Hanno creato un certo scalpore talune affermazioni della studiosa Lucetta Scaraffia, che mette in dubbio il criterio di morte cerebrale, adottato a livello scientifico da quarant’anni a questa parte. La meraviglia nasce dal fatto che, per smentire una teoria scientifica assodata, ci si dovrebbe esprimere da una cattedra universitaria con ampiezza tale di argomenti, da riempire un trattato. Poche colonne di un giornale non possono assolvere a questo compito e lasciano il lettore con un po’ di insoddisfazione ed anche con l’amaro in bocca. In particolare, andrebbe giustificata e supportata da letteratura scientifica internazionale l’affermazione, secondo cui nuove ricerche metterebbero in dubbio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo. Ora, con «morte cerebrale» s’intende la cessazione di tutte le funzioni cliniche dell’intero cervello, cioè non solo la coscienza, ma anche le funzioni vitali della respirazione e della circolazione sanguigna, e le funzioni integrative. Sia il tronco cerebrale sia la corteccia sono morti: anche se una piccola parte dell’attività cerebrale si può mantenere, tutta la struttura che governa il funzionamento dell’organismo è distrutta. Dal punto di vista pratico questo accertamento, però, non si può fare in modo immediato, ma, indirettamente, attraverso alcuni criteri oggettivi, tesi a constatare lo stato di incoscienza, l’assenza delle funzioni del tronco cerebrale, l’assenza di flusso cerebrale. L’apparecchio utilizzato è l’elettroencefalogramma, che è capace di rilevare la presenza o meno degli impulsi elettrici, che vengono dal cervello.
Certo, il fatto che con la morte cerebrale ci sia ancora qualcosa di «vivo» può lasciare perplessi, ma qualcosa di molto simile accade nella morte cardiaca, quando cornea, osso, peli e unghie continuano a crescere ancora per qualche tempo dopo il decesso. Può mettere a disagio il fatto che la morte cerebrale non dia segni evidenti all’esterno e, per di più, l’ossigenazione e la circolazione artificiale creano l’illusione della vita. Però, se si potesse vedere quello che avviene nel cervello, ci si renderebbe conto, che è iniziato un processo irreversibile, il processo del morire.
Mai la Chiesa ha identificato la persona con le attività cerebrali. Semmai, a motivo dell’inscindibile nesso tra spirito e corpo, la presenza o meno di talune attività biologiche, rivela che siamo già, o non più, alla presenza di una persona. Le attività cerebrali specificatamente quelle del tronco cerebrale sono ritenute oggi le più indicative, perché la loro assenza condanna tutte le altre. La persona non risiede nel cervello, ma la parte più interna del cervello sovrintende all’unità biologica della persona.
Dispiace che, al fine di sostenere la propria posizione, Scaraffia citi la posizione estrema di P. Singer, il filosofo anti cristiano, è noto per aver teorizzato la non differenza tra la persona e l’animale.
Le affermazioni della studiosa restano, quindi, nel campo dell’opinione personale. Non rappresentano di certo la posizione della Chiesa Cattolica, la quale, tra l’altro, di fronte ai vari parametri di accertamento della morte non fa opzioni scientifiche. Come aveva ricordato Giovanni Paolo II nel discorso rivolto il 29 agosto del 2000 ai partecipanti ad un Congresso internazionale della Società dei Trapianti. Il Papa aveva sottolineato che tuttavia «si può affermare» che «la cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica» come criterio di accertamento della morte «se applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica».