Opinioni & Commenti

Francesco, nel mistero di un uomo un riflesso del mistero di Dio

di Franco Vaccari

Vorrei staccare i santi dai santini. Lasciare sulla carta gli ornamenti e le aure luminose, i restyling dei passaggi di mano in mano. Per una certa sensibilità contemporanea, queste manipolazioni allontanano il santo dalla simpatia che suscita se visto nella sua esistenza intera, quando ancora non era un «santo finito». Interessante è, invece, la vita dei santi: graffiante, sbalorditiva, intrigante. Nelle storie si svela contemporaneamente la vicenda umana e la dimensione divina.

Se questo è vero per ogni santo, tanto più lo è per santo Francesco, in questo 4 ottobre 2008.

Il povero saio che si mise addosso, oggi esposto a La Verna, provoca un brivido per la vicenda drammatica di Francesco, ad Assisi, quando, appunto, non era ancora riconosciuto come santo. Tutt’altro. Dileggiato e deriso, allontanato e reietto, l’ho visto dentro quel saio: ridicolo. Il mio pensiero di oggi, al vederlo e all’udirlo così nell’Umbria del Duecento, è il pensiero dei tanti di ieri. Quel giovane assisano di ieri, patrono d’Italia dell’oggi. Vi sono storie che, se non ripercorse per intero, perdono il sapore, muoiono. E per ritrovarsi patrono ce ne vuole di storia! La storia infatti porta con sé arricchimenti, aggiunte, ma anche smarrimenti, dimenticanze degli inizi e con quelli del significato e del valore.

In Toscana, tra le tante innumerevoli grazie, abbiamo La Verna, un’opportunità per ripercorrere questa storia senza perderne passaggi decisivi. Salire su quel monte ci consente di completare l’esperienza avviata ad Assisi, penetrando nel mistero di un uomo che svela un riflesso del mistero di Dio. Senza La Verna Francesco è dimezzato e sfigurato. La salita ci preserva dall’irresistibile tentativo di addolcire e blandire Francesco, di attenuarlo e sfumarlo. Incastonata nel crudo sasso, la cappella delle stimmate non ha stampelle attaccate alle pareti o altri ex-voto per grazie ricevute. Chi passa da lì può solo abbandonare cose e pensieri, spogliarsi, chinarsi sul dolore proprio e altrui, su quello dell’umanità e del cosmo. E chiedere solo di saper amare. Perché non si può chiedere di togliere la sofferenza nel luogo in cui Francesco si recò per chiederla. Si può solo implorare di sopportarla, di trasformarla, di amarla appunto.

Lì – ma questo «lì» è in realtà ognuno di noi quando fa quell’esperienza – succede qualcosa che non si può raccontare perché è vicino alla follia: l’intensità del dolore permette di accogliere un’altrettanto e più grande intensità di amore. Cercare quell’amore significa accettare con esso il dolore che inevitabilmente comporta. Mistero custodito nel silenzio dai frati, che pure non lo posseggono ma lo amano.

Francesco ci indica un Dio che non toglie le sofferenze, ma le trasfigura, con l’amore. La meditazione a La Verna ci porta nuovamente agli altri, sapendo che il rapporto con loro non sarà senza sofferenza. L’intimità di ciascuno si forma infatti con la sofferenza e senza di essa non è possibile accedervi. Si torna meno superficiali.

Nell’epoca delle parole svuotate, del dolore urlato in pubblico che diventa osceno o dell’anestesia generale che stampa sul viso il sorriso degli stolti, staccare Francesco dal santino e raccontarlo nella verità della sua vita intera, con colori forti e contorni netti, può essere un buon servizio. Francesco non è un santo sfumato.