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Eluana Englaro, una sentenza che spiana la strada all’eutanasia
La sentenza ormai inappellabile ed esecutiva della Corte di Cassazione a favore della sospensione delle cure per Eluana Englaro è a tutti gli effetti una sentenza di morte, che introduce per via giurisprudenziale l’eutanasia nel nostro Paese. Nel dibattito che si è aperto, due sono le ragioni addotte dai sostenitori della sospensione delle cure: il no all’accanimento terapeutico e l’appello al principio di autodeterminazione. Sono due criteri di azione ineccepibili, ma vanno rettamente intesi e responsabilmente applicati.
L’accanimento terapeutico anzitutto. La medicina oggi dispone di possibilità sempre più estese e invasive d’intervento clinico. La possibilità medica, però, non dice comunque e sempre una liceità etica. Là dove un atto medico risulta sproporzionato rispetto ai prevedibili effetti su un paziente, si può lecitamente rinunciare. Tale atto può configurare un’ostinazione terapeutica, lesiva della dignità della persona. Al punto da configurarsi anche un obbligo di sottrarsi ad esso. Non è questo il caso di Eluana. Le cure, infatti, che le vengono prestate non sono di carattere sanitario, ma d’ordine umano. Eluana non è in grado di nutrirsi da sola, per cui viene amorevolmente assistita da persone che le procurano cibo e acqua e glieli somministrano. E in più la puliscono, la vestono, le sono premurosamente vicino. Non c’è nulla di sproporzionato, di accanimento in questo: c’è solo presenza e accompagnamento amorevole. C’è soltanto da ringraziare Dio che in una società in cui tutti «hanno fretta» e «tanto da fare» ci sono persone che «hanno tempo» per assistere pazienti come Eluana. Perché vietare questo amore? Amore altamente educativo! Né si dica che il coma persistente in cui è Eluana è una non-vita. Questo non è avvalorato da nessuna diagnosi clinica. In Eluana c’è attività cerebrale, anche se incompleta, e le attività organiche sono autonome: Eluana è viva. E se è viva, è persona, non meno di ogni altra che gode di ottima salute. È per questo che privarla dell’acqua e del cibo è sopprimerla.
C’è poi l’appello al principio di autodeterminazione, che fa del soggetto il primo responsabile della propria vita, chiamato a decidere della rinuncia o meno a un atto medico. Principio sacrosanto, ma che non fa del soggetto un arbitro assoluto delle proprie scelte. L’autodeterminazione, infatti, non è esercitata in un vuoto di significati e di valori, in modo da rendere ogni scelta buona e lecita. Così che rinunciare a un atto medico gravoso e dai risultati precari è autodeterminazione responsabile e legittima. Rinunciare a un atto medico che salva la vita o che consente il recupero di condizioni dignitose di vita è autodeterminazione irresponsabile e illegittima. Ugualmente dicasi della rinuncia all’alimentazione e all’idratazione che non sono atti medici, ma atti elementari e primari del vivere. È responsabile l’autodeterminazione a morire con dignità umana e cristiana; ma non a morire perché il vivere non risponde a determinati standard e qualità. La vita nostra o altrui non è un oggetto nelle nostre mani, così da non offrirsi indifferentemente all’audoterminazione del soggetto. Questo a motivo del valore assoluto della vita umana. Valore che non può mai legittimare alcuna scelta soppressiva.
Inoltre, non va dimenticata la ricaduta educativa di una tale sentenza, che fa scuola, crea mentalità, incide sugli immaginari collettivi, favorendo una cultura eutanasica e spianando la strada all’eutanasia per tutte le persone in labili e degenerative condizioni di vita. È quello che vogliono i cultori dell’eutanasia. Dove eutanasia, prima che di una pratica, dice di una filosofia della vita. Vita intesa in termini di qualità ed efficienza, col venir meno delle quali una vita vale meno o non vale più. Nel qual caso il problema non è Eluana, come non lo è nessuno che vive nelle condizioni di Eluana. Il problema siamo noi, ai cui occhi la loro vita non ha più un valore e il loro essere ancora al mondo ci è insopportabile.