Opinioni & Commenti
Riscoprire l’Avvento come tensione verso il futuro
di Giuseppe Savagnone
L’abitudine rischia di far perdere, anche ai credenti, il senso dei tempi liturgici. Così è dell’Avvento. Chi ricorda che con questo termine si allude a una venuta e all’attesa che la precede? Chi, soprattutto, ha chiaro che tale venuta non è quella che ormai da duemila anni sta dietro le nostre spalle la nascita di Gesù nella notte di Bethlem , bensì l’altra, assai più inquietante, che segnerà, un giorno, il ritorno del Figlio dell’uomo? Abbiamo preferito trasformare l’Avvento in una poco impegnativa rievocazione del passato. Ma, nella tradizione cristiana, esso era concepito, piuttosto, come il periodo più emblematico della vita cristiana, quello che ne rivela la tensione verso il futuro.
Lo spostamento dell’accento sulla prima venuta del Signore ci ha fatto perdere di vista che il regno di Dio deve ancora realizzarsi nella storia e che noi siamo responsabili, per quanto dipende dall’opera umana, di questa realizzazione. A questo regno la Chiesa, che ne è solo una primizia come il seme nella terra , deve tendere senza mai stancarsi, e ad esso deve sempre di nuovo convertirsi. Come dicono i padri: «Ecclesia semper reformanda». Troppo spesso l’esistente è stato scambiato per un punto d’arrivo, invece che di partenza, o almeno di passaggio a un ulteriore compimento. È nato da qui il modello della cristianità, di una società che pretende di incarnare già il regno compiuto, lasciando in ombra il «non ancora» e il difficile compito che esso comporta per i credenti.
Da questo punto di vista, non hanno tutti i torti i nostri fratelli ebrei nel rimproverarci di aver perduto il senso dell’attesa. Un racconto esprime bene il loro punto di vista. Un rabbi ricevette un giorno la visita di un suo discepolo che gli confidò di essere tentato di convertirsi al cristianesimo. «E se davvero fosse venuto?», chiese il giovane, riferendosi al Messia. Il rabbi non disse nulla. Con una mano spostò la tenda della finestra presso cui era seduto e guardò fuori. In strada c’era un mendicante avvolto in stracci, che tremava di freddo; una prostituta aspettava qualche cliente; un uomo batteva selvaggiamente il suo asino. Lasciò ricadere la tenda e, senza scomporsi, disse: «No, non è venuto».
L’Avvento è il tempo della presa di coscienza che, dopo duemila anni, il mondo, la stessa Chiesa, rivelano dolorosamente la loro distanza dal regno. In un certo senso, esso è già presente: ma come nella parabola del campo dove crescono insieme il buon grano e la zizzania. Misconoscere questa ambivalenza ha portato, a volte, a far perdere di vista alla comunità ecclesiale le sue contraddizioni e la necessità di rimettersi sempre in discussione. Da dove, a volte, una pastorale difensiva, protesa solo a conservare l’esistente.
C’è però anche il pericolo opposto. Di tanto in tanto qualche servo troppo zelante si fa avanti con la pretesa di fare piazza pulita di ciò che non va, a costo di estirpare anche il grano. È il senso di certe eresie che, per purificare la Chiesa, hanno rischiato di distruggerla. L’Avvento ci ricorda l’invito del Signore ad attendere con pazienza la mietitura. Senza pretendere di esserne noi gli artefici: «E i mietitori sono gli angeli» (Mt 13,39).