Opinioni & Commenti

E se la crisi favorisse la riscoperta del vero Natale?

di Giuseppe Savagnone

Da molto tempo la celebrazione del Natale coincide, nel mondo occidentale, con il tripudio del consumismo più sfrenato. L’originario significato religioso di questa ricorrenza sembra essere ormai passato in seconda linea, soffocato dalla corsa ai regali, dai pranzi luculliani, dai viaggi dispendiosi. Soprattutto in un’Europa che prende sempre più le distanze dalle proprie radici cristiane, questo distacco della festa dal suo fondamento nella fede appare marcato. Non c’è da stupirsi che, emblematicamente, il consiglio comunale della prestigiosa città universitaria di Oxford abbia deciso di  cancellare la denominazione, inequivocabilmente evangelica, di «Natale», sostituendola con quella, più neutra, di «Festa della luce d’inverno».

Quest’anno, però, l’irruzione della crisi finanziaria ed economica ha cambiato il quadro tradizionale, imponendo uno stile collettivo di maggiore sobrietà. È indubbio che ciò costituisce, per certi versi, una dolorosa rinunzia. Spogliato di una parte della sua scintillante coreografia, il Natale perde qualcosa della spensierata allegria che lo caratterizza e lascia affiorare un senso inquietante di «impoverimento».

Eppure, proprio questo «impoverimento», paradossalmente, può favorire la riscoperta degli autentici termini della festa. Perché, al cuore di essa, sta l’idea che Dio, per amore, abbia voluto in qualche modo «impoverirsi», spogliandosi della sua gloria sfolgorante e facendosi uomo come noi. Scegliendo, per di più, di nascere non in una reggia sontuosa, ma in una stalla, da una famiglia di poveri. E trovando accoglienza non da parte di quanti erano assorti nei loro lucrosi affari, ma di un pugno di pastori, una categoria tra le più emarginate della società ebraica del tempo. Siamo davanti ad un messaggio che può parlare a credenti e non credenti: la dignità dell’essere umano è tanto grande da diventare il «luogo» in cui lo stesso mistero divino si manifesta, ed essa risiede in ciò che ognuno è, non in ciò che ha. La povertà (che è cosa diversa dalla miseria, da cui si può essere abbrutiti) mette in piena luce questo primato dell’essere sull’avere, che la nostra società sembra aver dimenticato.

L’«impoverimento» di cui parliamo, peraltro, può aiutare a riscoprire il Natale anche da un altro punto di vista. La tradizione sottolinea il silenzio di questa notte. È in esso che Dio, secondo la rivelazione, pronunzia la sua Parola piena di mistero, in modo che solo chi è vigile, chi è disposto ad ascoltare il silenzio, possa udirla. Il nostro chiassoso affaccendarci di negozio in negozio, di divertimento in divertimento, ha cancellato questa disponibilità. Se il ritmo degli acquisti rallenta, se il rumore si attenua, forse può rinascere nei nostri cuori la nostalgia di Qualcosa o di Qualcuno che sia la vera risposta alla nostra inquietudine. E, in questo profondo silenzio, anche i nostri volti potrebbero affiorare nella loro autenticità, finalmente liberi dalla maschera che li omologa tutti all’insegna delle mode. L’«impoverimento» allora, si rivelerebbe la condizione propizia per ritrovarsi. I lineamenti di una  statua emergono dalla massa informe del marmo solo se lo si scalpella, se gli si toglie una parte del pur prezioso materiale che la costituisce inizialmente. È questo «di meno» a consentire che l’opera d’arte si delinei nella sua inconfondibile identità. Forse un Natale più «povero» può diventare l’occasione per questa nuova, sconvolgente esperienza di Dio e, prima ancora, della propria interiorità. E allora anche le luci della festa brillerebbero ai nostri occhi in modo diverso, non con l’abbagliante splendore che abbaglia e frastorna, ma con l’incerto, discreto chiarore delle stelle nell’oscurità della notte. E forse, nello spazio lasciato vuoto dalle luminarie del capitalismo, anche dentro di noi potrebbe apparire una piccola stella che annuncia la venuta di Dio.