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Obama, un insediamento provvidenziale se all’annuncio seguirà una nuova politica

di Romanello Cantini

Il timbro più significativo del discorso inaugurale del presidente Obama è stato senza dubbio l’invito al dialogo con i popoli del mondo e l’immagine di una America che rispetta e collabora anziché quella di una America che comanda e si isola. Il neo presidente ha lanciato questo messaggio affidandosi più all’evento scioccante del suo esserci che alle argomentazioni. Ora che la Casa Bianca non è più bianca anche l’America può apparire perfino ad occhio nudo diversa.

Obama ha insistito sugli Stati Uniti come terra di immigrazione glissando sulle tragedie di una storia passata fatta anche di sterminio e di schiavitù per presentarla come una sorta di premonizione di un mondo in cui gran parte degli esperti del pianeta affida il suo futuro all’attraversamento di un mare o di un oceano. Ed ha descritto l’America non come il gendarme più armato del mondo occidentale e il ventre più pieno del capitalismo, ma come la società multiculturale più antica in cui oggi convivono cristiani e musulmani, induisti e non credenti. Insomma l’America come un microcosmo esemplare di un mondo in cui le varie civilizzazioni possono convivere in pace. Così Obama ha fatto della sua elezione non solo il trionfo della lotta secolare per i diritti umani, ma il simbolo di una nazione tollerante e generosa che affida la sua guida ad un rappresentante di una minoranza. L’uomo che è arrivato alla Casa Bianca come rampollo di una famiglia partita dal Kenia sa che nella lunga lotta degli afroamericani c’è stata non solo la volontà di essere cittadini americani a pieno titolo, ma anche di sentirsi rappresentanti del Terzo Mondo fino a sognare il ritorno all’Africa e all’Islam nelle sue punte estreme e nei momenti più disperati. Ora Obama sa che, non solo per la straordinaria luna di miele che sta attraversando, ma anche per questa virtuale importazione di un pizzico di quel mondo spesso opposto e ostile che la sua figura sembra ora trapiantare in America anche solo a livello di immagine, ha una straordinaria occasione per ricucire proprio laddove negli ultimi anni più si è strappato.

In questo quadro l’insediamento di Obama, avvenuto quando in Palestina le canne dei fucili sono ancora fumanti e in altre parti del mondo continuano a sparare, appare non solo benvenuto ma forse provvidenziale soprattutto se all’annuncio seguirà il successo di una nuova politica.

Di tentativi di conciliazione c’è bisogno infatti non da domani, ma già da oggi. Per fare un solo esempio, nel prossimo mese dalle elezioni israeliane è molto probabile che torni al potere il leader della destra, Netanyahu, mentre a giugno in Iran sarà verosimilmente rieletto l’integralista Ahmadinejad. Tutto questo mentre da molte parti si teme che l’Iran possa avere l’atomica se non quest’anno, a partire dall’anno prossimo. Prima che scoppi una guerra preventiva fra Gerusalemme e Teheran, che qualcuno ha già chiamato terza guerra mondiale, è urgente vedere all’opera un Obama che ha promesso di essere disposto ad incontrarsi direttamente anche con il presidente iraniano se sarà necessario. Ormai è chiaro che senza un minimo di dialogo con l’Iran non si alleggerisce la situazione né a Gaza, né nel Libano. Nemmeno in Iraq dove l’influenza iraniana si fa sentire anche nel governo eletto. E il Medioriente non si rasserena senza l’appoggio di altre potenze come la Russia ora irritata per i missili antimissili in Polonia e in Cecoslovacchia e per l’allargamento della Nato ai suoi confini. Obama nel suo discorso è arrivato a dire che perfino la lotta contro il nazismo e il comunismo è stata vinta non tanto per le armi, ma per i valori che l’America è riuscita a incarnare e per le alleanze che è stata capace di tessere. Di questo passaggio dalla minaccia alla diplomazia, dall’unilateralismo alla multipolarità, per dare la mano, come ha detto il neopresidente, a tutti i pugni che si aprono, c’è oggi un tale bisogno che forse dobbiamo considerarlo più che una svolta politica un segno dei tempi.