Opinioni & Commenti

Crisi economica, tra segnali contrastanti restano a rischio i più deboli

di Pier Angelo Mori

La crisi c’è, sta per finire o forse è già finita? La domanda è legittima dati i messaggi contrastanti che vengono da più parti. Purtroppo la risposta non è semplice e questo per vari motivi: anzitutto entrano in gioco previsioni sull’economia mondiale che hanno un alto grado di incertezza, inoltre la risposta non può essere uguale per tutti i gruppi sociali e i settori industriali. In una parola, non c’è una sola crisi ma ve ne sono più d’una, con dinamiche diverse.

Concentriamoci sugli effetti per le classi più deboli. I soggetti più deboli in assoluto sono gli inoccupati di lungo periodo che almeno in parte dipendono economicamente da qualche forma di assistenza. Per questo strato, paradossalmente, la crisi non ha avuto conseguenze e presumibilmente non ne avrà: la situazione lavorativa di questi soggetti non può peggiorare, anche se la loro condizione complessiva rischia tuttavia di peggiorare per altre cause, estranee all’attuale crisi.

Ci riferiamo qui ai tagli della spesa pubblica dell’ultimo anno, in particolare ai trasferimenti agli enti locali, che si stanno ripercuotendo sulla spesa sociale (non in tutti i comuni, ma in molti): questi tagli, com’è noto, sono stati decisi prima dello scoppio della crisi globale e sono la riposta a squilibri strutturali della finanza pubblica italiana. Sopra questo strato, a una certa distanza, si collocano i lavoratori regolari – tipicamente a tempo determinato – che erano occupati fino al settembre 2008 ma che nel frattempo hanno perso il lavoro o con posto di lavoro ora in pericolo. Questi soggetti sono colpiti dalla crisi ma le conseguenze per loro dovrebbero essere contenute, grazie agli interventi sugli ammortizzatori sociali annunciati dal governo.

Tra questi due gruppi si colloca una fascia di più incerta definizione. Sono i lavoratori irregolari, i lavoratori precari, i lavoratori autonomi impegnati in attività che stanno entrando in crisi o potrebbero farlo nell’immediato futuro. Il problema principale è: quanti sono? Qui la difficoltà è massima perché non c’è al momento uniformità di vedute nemmeno sulla valutazione della consistenza attuale, men che mai sulla previsione dei posti di lavoro che si perderanno nei prossimi mesi.

Come si vede gli effetti della crisi, quelli già noti e quelli prevedibili, sono assai diversificati ma quel che è peggio sono difficilmente quantificabili. Comunque da diversi segnali sembra abbastanza chiaro che la fascia dei soggetti in difficoltà privi di assistenza pubblica – coloro che godevano di assistenza pubblica a livello locale e la perdono e i nuovi disoccupati esclusi dagli ammortizzatori sociali – è destinata ad allargarsi. Ovviamente tutto ciò è destinato a tradursi in una domanda aggiuntiva di assistenza privata.

Cosa può fare la Chiesa in questo quadro? Certamente riorganizzare la gestione dell’assistenza sul territorio, e in molte diocesi lo si sta facendo. Reperire maggiori risorse da destinare all’assistenza, e anche questo lo si sta facendo, con un certo successo. Deve essere però chiaro a tutti che già prima della crisi, la Caritas e le parrocchie non erano in grado di far fronte a tutte le domande, ed è difficile che oggi, anche con una migliore organizzazione interna e una maggiore quantità di risorse, possano farlo. In termini meramente economici il contributo della Chiesa al superamento della crisi per le fasce più deboli non può che essere parziale.

Tutto sommato però l’obiettivo principale della Chiesa è altro, essere segno e strumento di sensibilizzazione. Qualche frutto lo si vede, ma vale la pena insistere di più: è questo che la società in definitiva maggiormente si attende dalla comunità dei cristiani.