Opinioni & Commenti
Quegli operai sul «carroponte» e un insegnamento alla luce della dottrina sociale
di Francesco Gurrieri
Il «carroponte» è un tipo di gru dotata di doppio movimento (longitudinalmente, lungo i binari su cui scorre e, trasversalmente, fra le pareti su cui appoggia), per sollevare e spostare grossi carichi. In genere, è a dieci, venti, trenta metri di altezza, subito sotto il tetto. Alla «Innse» di Lambrate si è consumato questa estate un evento che deve farci pensare.
Cinque operai, a nome di tutti gli altri, si sono rifiutati di veder smontare e vendere macchinari e fabbrica che sapevano ancora produttiva, rifiutandone la liquidazione e persino quell’outplacement (che sta per ricollocamento altrove, non importa dove).
Qui gli operai hanno invocato la loro pluridecennale professionalità e la volontà di restituire dignità a quella fabbrica. I motivi della chiusura da parte della proprietà non sembrano chiari e qualcuno, si dice, indica la convertibilità in volumi residenziali dell’intera area, già immaginata dagli strumenti urbanistici regionali e comunali. Insomma, una brutta vicenda dai contorni potenzialmente torbidi. Ma non è di questo che qui si vuol accennare. È d’altro. È del fatto che può apparire un po’ insolito di interrogarsi sul «valore aggiunto» alla efficienza dei macchinari, alla connotazione delle lavorazioni e dei prodotti e, in definitiva, all’immagine dell’impresa che apporta la buona professionalità e il senso di responsabilità: quei tanti piccoli (e grandi) suggerimenti che gli operai alle macchine operatrici del ciclo produttivo suggeriscono negli anni, contribuendo a configurare l’identità e l’apprezzamento di quell’impresa. Dopo venti o trent’anni di fedele lavoro «alla macchina», c’è da meravigliarsi se l’operaio la senta un po’ anche «sua» e vuol combattere contro la cancellazione di quella identità (che non è solo il «posto di lavoro»)?
Io, da cristiano «assai imperfetto» come si definiva Carlo Bo mi chiedo se la dottrina sociale della chiesa non possa soccorrere in questo senso. Cito dal «Compendio» del Pontificio Consiglio della Giustizia e della pace : a) I beni, anche se legittimamente posseduti, mantengono sempre una destinazione universale; è immorale ogni forma di indebita accumulazione perché in aperto contrasto con la destinazione universale assegnata da Dio Creatore a tutti i beni; b) Le ricchezze realizzano la loro funzione di servizio all’uomo quando sono destinate a produrre benefici per gli altri e la società; c) Il rapporto tra morale ed economia è necessario e intrinseco: attività economica e comportamento morale si compenetrano intimamente.
Io non ho esperienza d’industria meccanica; ho larga esperienza dei cantieri di restauro e so bene come la qualità e la «cultura d’impresa» non son fatte solo dai suoi dirigenti, ma in gran parte dalla professionalità dei suoi operai, dai quali, spesso, c’è sempre da imparar qualcosa.
C’è dunque un insegnamento in questa vicenda del «carroponte»? Credo di sì: credo si possa cristianamente dedurre che l’identità e la cultura d’impresa sono patrimonio comune che pertiene alla proprietà, alla dirigenza e alla professionalità degli operai che vi lavorano. E che dunque ogni seria decisione di sopravvivenza va spiegata, negoziata e non imposta con apodittica protervia.