Opinioni & Commenti
Ognissanti, affacciati sul cielo
di Franco Vaccari
Tutti i santi: e me li vedo lì, proprio tutti, uno ad uno. Tanti, enumerabili, ma finiti. Io sono fuori da quella mirabile fila. Li guardo, li ammiro. Sono a una certa distanza. Tutti santi. Chi? mi viene invece da chiedere. Svanisce l’immagine e non so chi e dove guardare.
Tutti i santi è un’asserzione, una definizione importante che rivela una possibile identità profonda, ma non chiarifica a chi si rivolge. Il confine non è più netto, il numero è indefinito. Tento di guardare, ma non vedo. Sono confuso.
Ognissanti. Ogni santo: non se ne perda neppure uno. Non esclude che ognuno possa esserlo, anzi potrebbe includere l’affermazione: ognuno è santo. Ma ognissanti è una parola sola: richiama l’unicità di ciascuno e la unisce in un collettivo che si sostantiva come neologismo per una evidente forza specifica. Ognissanti: ognuno resta se stesso nell’unità offerta dall’insieme, dove ciascuno è intimamente unito agli altri. Io sto dentro quel cerchio, compio un giro completo su di me e sono accolto. Li tocco, li sento e ne partecipo. Sancta sanctis! È la comunione dei santi.
Le parole costruiscono e modificano il nostro immaginario, la visione, la prospettiva, il destino, l’indole misteriosa che soggiace alla nostra esistenza.
Ognissanti non è bello perché siamo toscani e il nostro italiano ci suona dolcissimo e potente. È un’immagine incredibile perché rivela il dinamismo della santità e la forza del suo esistere gratuito, offerto a ciascuno a prescindere dai suoi meriti.
Su questo dinamismo merita sostare per alcuni motivi. Infatti estrarre la santità dalle relazioni significa recidere il nesso che l’ha fatta germinare e quindi snaturarla. Santi non ci si fa da soli, ma con Dio e attraverso i fratelli.
Un santo «statico» non si è mai visto, fuorché nei santini. Un’immagine inadeguata rischia di allontanare i santi (e «le cose sante») dalla nostra vita quotidiana. Congiurano, in questo, un certo devozionalismo e una cultura della relazione umana profondamente in crisi: l’ipertrofia dell’ego che oscura l’Altro e gli altri. Contemplare la comunione dei santi ci pone in un atteggiamento di verità mantenendoci in un certo modo dentro ciò che contempliamo ed evitando quella separazione tra noi» e «i santi». Spalanca la nostra vita spirituale sia nella dimensione verticale sia in quella orizzontale.
Se Dio assume l’intera natura umana non può che farlo attraverso il suo corpo che è la Chiesa, la quale si estende nel tempo e nello spazio ben oltre i confini a noi visibili. Dunque santifica l’universo attraverso le persone che, come cellule di un unico corpo, interagiscono tra sé e con l’ambiente in un dinamismo che è vita. Allora Ognissanti è la festa della relazione redenta, della possibilità gioiosa di vivere insieme.
Se Dio ha messo piede sulla terra, abitandola come uomo; se partecipa la sua santità a partire da sua madre che si è fatta dimora unica per custodirlo e donarlo agli altri, allora i santi sono coloro che vivono di questo dono, accolto in una relazione con lui e in modo non solitario rispetto agli altri.
Se Dio, nelle cose sante e con i santi, ha deciso di rimanere con un piede sulla terra, allora i santi stanno con un piede nella terra e uno nel cielo. Se i santi sono questo popolo radunato, ciascuno di noi è affacciato in forma permanente sul cielo.
Questo «piede dentro e piede fuori», se rivela la nostra duplice natura umana e divina, apre alcune considerazioni sul versante orizzontale dei nostri rapporti sociali. Ogni relazione, infatti, se vuol essere autentica è descrivibile con «un piede dentro e uno fuori». In ogni guarigione, il medico, se intende essere d’aiuto al suo malato, deve penetrare in lui, conoscerlo, comprenderlo e, contemporaneamente, essere altro da lui, estraneo, per conservare lucidità e forza nell’azione. In ogni educazione occorre sviluppare empatia, suscitare il sentimento di alleanza e, contemporaneamente mantenere l’asimmetria del rapporto per cui educatore ed educato sono ruoli irriducibili. Ogni relazione paritaria, se vuol essere significativa, punta al raggiungimento dell’intimità, senza far perdere le reciproche identità.
Nell’epoca della relazione sfumata, che in forma ravvicinata e centripeta produce simbiosi difensive e arroccamenti impauriti o in forma distanziata si smarrisce nelle protesi tecnologiche di reti virtuali, la fragilità e la precarietà dell’esistenza sono sistematicamente negate.
La relazione virtuale tende a sostituirsi alla relazione concreta, svuotando la possibilità di una comunicazione intima. A questa si sovrappone la comunicazione mediatica, manipolata e adulterata, di un sistema all’apparenza anarchico. Si chiamano reti, uniscono, ma non fanno comunione. Concorrono al tritacarne mediatico che ormai ogni giorno fa martiri senza sangue e ci unisce tutti nei pensieri e nelle emozioni che produce. Ma pensiero ed emozione non bastano alla comunione.
Ad una di queste persone, messe recentemente alla pubblica gogna, è giunto un messaggio che, invece, arriva dalla comunione dei santi: «Se, accedendo alla Carità, potessi avere una spada, taglierei di netto tutto ciò che si addensa e, nel tempo, si incrosta intorno a te. Così potrei arrivare vicino all’intimo e sussurrarti, tra tante grida, la mia amicizia».
Nel clamore mediatico, la relazione luminosa dell’amicizia che si dona con la paradossale forma della «punta dei piedi» dice tutto il rispetto per la persona umana che cresce solo dentro relazioni rispettose, liberanti e liberate.
Un grande dono la festa di Ognissanti: una possibilità in più per contemplare il mistero della comunione, la grazia di non essere soli e, con essa, di vincere la paura con la fede.