Opinioni & Commenti
I gesti e le parole di Benedetto rilanciano il dialogo con gli ebrei
di Fabio Zavattaro
I primi gesti di papa Benedetto alla Sinagoga di Roma (Il Papa in Sinagoga: «Le piaghe dell’antisemitismo siano sanate per sempre») non hanno bisogno di parole. Lascia un cesto di fiori davanti la lapide che ricorda la deportazione dal ghetto di 1.022 ebrei romani: tornarono in 15, una sola donna e 14 uomini. C’erano donne in attesa di un figlio, anziani, 200 bambini: «E non cominciarono neppure a vivere». Dopo un tratto di strada percorso a piedi, si ferma davanti la lapide del piccolo Stefano Tachè morto a due anni, vittima di un attentato terroristico. Ci sono i genitori e il fratello. Preghiera silenziosa, intensa. Infine il saluto all’anziano rabbino Elio Toaff, che è voluto scendere per salutare il Papa in questa visita che fa memoria dell’altra storica di 24 anni fa: allora ad accogliere il Papa, Giovanni Paolo II, è stato proprio lui, il rabbino Toaff, l’unico citato da papa Wojtyla nel suo testamento. Lo ricorda nel breve scambio di saluti con Benedetto XVI, sottolineando la continuità di un cammino di dialogo che è irreversibile. E ricorda quel silenzio e poi quel lungo applauso di commozione, di speranza, di sentimento fraterno. C’è un ultimo gesto prima delle parole, il Papa che si alza, applaude e si inchina rivolto agli ex deportati. Tornano alla mente le parole che ha pronunciato a Auschwitz: non potevo non venire qui, come uomo, come Papa, come figlio del popolo tedesco.
Quindi l’atteso momento dei discorsi, limati fino all’ultimo. Ma non sono discorsi di circostanza: se la visita di papa Wojtyla la possiamo chiamare storica ci sono voluti duemila anni per compiere quei pochi chilometri dal Vaticano a Lungotevere Cenci la tappa di Benedetto XVI è ancora importante e complessa. Si tratta di proseguire la via del dialogo, coinvolgendo anche l’islam nell’impegno delle religioni per la pace. Si tratta soprattutto di superare differenze e incomprensioni, cresciute in questi ultimi tempi, dal caso del vescovo negazionista Williamson, alla proclamazione delle virtù eroiche di Pio XII.
Papa Benedetto inizia già all’Angelus: fa capire che la sua visita sarà un’ulteriore tappa nel cammino di concordia e di amicizia tra cattolici ed ebrei: «Malgrado i problemi e le difficoltà dice tra i credenti delle due religioni si respira un clima di grande rispetto e di dialogo, a testimonianza di quanto i rapporti siano maturati e dell’impegno comune di valorizzare ciò che ci unisce». Quel guardare più a ciò che ci unisce è tutto di Giovanni XXIII, il Papa che diede un forte impulso al dialogo, grazie a quell’incontro con Jules Isaac, 20 minuti assieme a Castelgandolfo. «Parlo a nome dei martiri di tutti i tempi», gli dirà Isaac consegnando un dossier e chiedendo se può nutrire qualche speranza. «Avete diritto più che alla speranza», gli risponde Roncalli. Moriranno prima di vedere il testo della Dichiarazione conciliare «Nostra aetate». All’interno del Tempio maggiore, il primo a prendere la parola è il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici. Ricorda che se oggi può parlare e salutare il Papa è perché suo padre e lo zio Raffaele trovarono rifugio nel Convento delle suore di Santa Marta a Firenze. Non si è trattato di un caso isolato, «per questo il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso un segnale, una parola di estremo conforto, di solidarietà umana».
«Il silenzio di Dio, o la nostra incapacità di sentire la sua voce davanti ai mali del mondo, sono un mistero imperscrutabile», afferma il rabbino capo Riccardo Di Segni. «Ma il silenzio dell’uomo è su un piano diverso, ci interroga, ci sfida ». Ma i problemi aperti e le incomprensioni non devono essere messi in primo piano: «L’immagine di rispetto e di amicizia che emana da questo incontro deve essere un esempio per tutti coloro che ci osservano», afferma ancora Di Segni. Papa Benedetto afferma che la sua visita si inserisce in un cammino teso a superare incomprensione e pregiudizi. La Shoah, dramma singolare e sconvolgente, rappresenta «il vertice di un cammino di odio che nasce quando l’uomo dimentica il suo creatore e mette se stesso al centro dell’universo». Ricorda gli ebrei romani «che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz». Come è possibile, afferma, «dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini». E aggiunge: «Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta. La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza».
Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, afferma ancora il Papa: «Pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro. Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell’amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell’umanità in questo mondo creato da Dio, l’Onnipotente e il Misericordioso».