Opinioni & Commenti

Regionali, se la partita è truccata

di Simone Pitossi

Il 28 e 29 marzo prossimi i cittadini dovrebbero eleggere il Presidente della Regione e il nuovo Consiglio regionale. Il condizionale è d’obbligo. Perché, come ben sappiamo, la partita è truccata.

L’attuale legge elettorale regionale, votata dai partiti presenti nel Consiglio nel 2004 (unica eccezione l’Udc), ha infatti esautorato i cittadini dalla possibilità di scelta dei propri rappresentanti. Legge che ha tra i suoi «meriti» – non invidiabili – quello di aver ispirato anche il sistema elettorale nazionale. Legge regionale ulteriormente modificata (e peggiorata, se possibile) la scorsa estate. L’elettore toscano attualmente ha solo il «potere» di mera ratifica delle candidature, pensate e decise dalle segreterie di partito.

Depositate le liste è infatti possibile conoscere i componenti del Consiglio regionale prima ancora che si tengano le elezioni. I candidati conoscono già, in base alla loro posizione nei listini regionali e in quelli provinciali, quali risulteranno «nominati» e quali no. Un sistema antidemocratico che allontana il cittadino dalle istituzioni.

Sì, il voto di preferenza aveva i suoi limiti: primo fra tutti quello di far lievitare le spese dei candidati. Ma anche le primarie – stabilite per legge dalla Regione e pagate dalle tasche dei cittadini, ma non obbligatorie – hanno degli inconvenienti. Solo il Pd le ha utilizzate (e solo in parte). I simpatizzanti del Partito democratico hanno infatti scelto tra alcuni candidati alla carica di consigliere. Ma hanno trovato la carica più importante – il Presidente – già decisa, senza competizione.

Non solo. Neanche i componenti del cosiddetto «listino» (ben cinque) sono passati dalle primarie. E sono i primi ad entrare in Consiglio. Una cosa è certa. Servono regole oggettive per selezionare i candidati e i dirigenti dei partiti. Ora in pochi scelgono per tutti, infischiandosene della voce dei territori, della società, dei cittadini.

Nascono così candidature – nel listino del Pdl – come quella di Marco Taradash, «campione» di battaglie radicali. O anche come quella, ben più clamorosa – uscendo, per un attimo, fuori dai nostri confini – di Emma Bonino, cui il Pd ha affidato il ruolo guida di candidata a presidente del Lazio (non proprio l’ultima regione). Nasce così la candidatura di Pieraldo Ciucchi, consigliere socialista uscente: senza passare dalle primarie del Pd – grazie a un accordo tra segreterie – è stato «paracadutato» nel listino del Partito democratico per avere il seggio garantito. Nascono così le candidature – in quasi tutti i partiti – di deputati o senatori che sono specchietti per le allodole e, il giorno dopo l’elezione, cederanno il posto a qualcun’altro. È il caso di Monica Faenzi, candidata alla presidenza: l’esponente Pdl è sindaco di Castiglione della Pescaia e parlamentare. Ha già dichiarato che, in caso di sconfitta (molto probabile), non metterà piede in Consiglio ma lascerà la poltrona al primo dei non eletti.

Ora registriamo con piacere la «conversione» di Enrico Rossi, candidato presidente del Pd, che si è espresso per un ritorno al voto di preferenza. Proprio il Pd infatti è stato il co-protagonista dell’«inciucio» con il Pdl che ha prodotto questa legge elettorale. E allora, considerato che – a meno di clamorose sorprese – Rossi sarà il nuovo presidente, è ora di passare dalle parole ai fatti. Perché Rossi non prende l’impegno di risolvere la questione entro i primi mesi post-elezione? Altrimenti, come sempre, c’è il rischio che tutto cada nel dimenticatoio. E, anche questa, vada in archivio come una delle tante promesse elettorali.