Opinioni & Commenti
Il blitz di Israele un fatto gravissimo per chi vanta di essere paladino dei diritti umani
di Romanello Cantini
Non si può proprio dire che questo sia un periodo molto fortunato e favorevole per la politica israeliana. Per quanto ci preoccupi l’idea di uno Stato ebraico messo all’angolo, sembra che il governo israeliano non faccia quasi nulla per evitare questa eventualità. Messo sotto accusa da un’inchiesta Onu per il duro intervento militare a Gaza dell’anno scorso, in rotta anche con la Casa Bianca per l’ostinazione nel voler continuare a creare colonie nei territori occupati, preso di mira da una decisione dell’assemblea dell’Onu di questi giorni che chiede un Medio Oriente denuclearizzato anche dalle atomiche israeliane, il governo di Gerusalemme rischia sempre più un isolamento pericoloso per lui stesso prima che per l’intero quadro mediorientale.
Questo è, inoltre, un periodo in cui Israele può meno che in passato, e fortunatamente per lui, assumere il ruolo di vittima. Nonostante l’immutata intransigenza teorica di Hamas e le parole minacciose che gli integralisti non si risparmiano mai, di fatto sono ormai anni che Israele non è più bersaglio di attentati terroristici di massa. Anzi, come un fiore quasi miracoloso sbocciato nella sabbia, per la prima volta in quasi mezzo secolo di lotta i palestinesi cominciano ad impugnare armi non violente, addirittura di marca gandhiana, come il boicottaggio dei prodotti ebraici, abbandonando perfino quella guerriglia a bassa intensità in cui finora si rispondeva con i sassi ai gas lacrimogeni. Ed è sorprendente che Israele non solo non sappia approfittare di questo nuovo clima in cui il sangue è cancellato dalla lotta, ma cada addirittura nella trappola illustrata e voluta da tutti i teorici della non-violenza, per cui l’avversario si scredita e perde consensi e alleati quando risponde alla non-violenza con la violenza.
Di stile non-violento e creative, come in genere tutte le invenzioni della resistenza passiva, sono state anche le iniziative prese dall’esterno per richiamare l’attenzione sull’embargo a cui è soggetta la zona di Gaza, come il campionato di calcio organizzato da un’agenzia dell’Onu per compensare i palestinesi della loro impossibilità a partecipare ai Mondiali in Sudafrica, o come la provocazione di personaggi famosi che hanno cercato di entrare a Gaza. Anche in questo caso il governo israeliano si è giocato la propria popolarità impedendo l’accesso a personaggi inoffensivi ma celebri come il vescovo anglicano Desmond Tutu e, più recentemente, il linguista americano Noam Chomsky.
Ora siamo arrivati al fatto gravissimo dell’assalto, con morti e feriti, ad una nave turca che faceva parte della flottiglia partita da quaranta Paesi diversi con circa settecento volontari a bordo, fra cui parlamentari europei e militanti di organizzazioni umanitarie, con l’intenzione di portare a Gaza cibo e medicinali. L’inchiesta che tutti chiedono, dall’Onu all’Europa, allo stesso Stato italiano, riuscirà forse a fare maggiore luce sulla vicenda. Sull’ostilità crescente dell’opinione pubblica e dello stesso governo turco verso Israele ci sono pochi dubbi. E tuttavia è già innegabile che sono stati aggrediti e uccisi dei civili le cui intenzioni erano certamente provocatorie, ma altrettanto sicuramente pacifiche. Per i metodi e per lo spirito non-violento, al di là delle intenzioni personali che nessuno può psicanalizzare, l’iniziativa della «Freedom Flotilla» ricorda molto da vicino l’iniziativa dei «Freedom riders» con cui i seguaci di Luther King quasi mezzo secolo fa cercavano di forzare i luoghi della segregazione nel Sud degli Stati Uniti. Ed è grave che uno Stato che si vanta di essere l’unico paladino dei diritti umani fra i Paesi del Medio Oriente e che ha fra i suoi miti fondatori quello della nave «Exodus», bloccata in mare con il suo carico di civili, non sappia oggi distinguere un peschereccio che porta roba da mettere sotto i denti da un incrociatore.