Opinioni & Commenti

Iraq, sull’orlo del baratro

di ROMANELLO CANTINI

Obama ha voluto mantenere la promessa di ritirare le truppe americane dall’Iraq entro il 31 agosto. In questa fedeltà del presidente americano alle proprie parole del febbraio scorso ha giocato certamente più la paura delle elezioni americane di novembre, a cui Obama si presenta con un crollo di popolarità pauroso, che la soddisfazione per la situazione in Iraq, su cui non c’è molto da stare tranquilli, nonostante l’invito americano a camminare d’ora in avanti da soli.

Il nuovo esercito iracheno raggiunge circa 200.000 effettivi – che, a giudizio di quasi tutti gli osservatori, è un esercito in cui la motivazione principale è quella di ottenere una paga per sfuggire alla disoccupazione e il cui grado di addestramento, nonostante quattro anni di lavoro, rimane molto basso. I nuovi soldati iracheni potranno al massimo istituire posti di blocco e uscire in pattuglie con mansioni e equipaggiamenti che non supereranno di molto quelle dei vigili urbani. Per di più, proprio in previsione di questo ruolo ormai esclusivo dell’esercito nazionale, la guerriglia ha intensificato gli attentati contro i centri di reclutamento con quello del 19 luglio scorso che ha fatto 48 morti e quello del 17 agosto che ne ha causati altri 47.

Il Capo di stato maggiore iracheno ha detto con brutale franchezza che per poter parlare di un vero e proprio esercito iracheno bisognerà aspettare altri dieci anni. E il ministro degli Esteri ha aggiunto, con altrettanta chiarezza, che gli americani lasciano in Iraq “un vuoto di potere”.

Anche se in Iraq rimangono ancora 50.000 soldati americani con funzioni di addestramento e, anche se sottobanco diverse funzioni militari potranno essere affidate alle ormai numerosissime e potentissime società private che con i loro mercenari eseguono le operazioni che i governi non si possono più permettere, è evidente che la guerriglia d’ora in avanti accrescerà la sua attività anche per dimostrare combattendo fino all’ultimo che il ritiro americano è stato una sua vittoria.

D’altra parte l’Iraq, a cinque mesi di distanza dalle elezioni del marzo scorso, non ha ancora un governo. Fra il laico–sunnita Iyad Allawi che ha ottenuto 91 seggi e lo sciita Nouri al Maliki, che ne ha ottenuti appena due in meno, è in atto un interminabile tiro alla fune che non è causato solo dalle ambizioni reciproche. In realtà dietro Allawi premono tutti gli Stati sunniti dall’Arabia Saudita, alla Siria alla Turchia. Dietro al Maliki c’è l’Iran che sa di avere dietro di sé la maggioranza religiosa del Paese.

La paralisi della politica interna irachena dovuta al profilarsi di tanti protettorati possibili nel Paese del dopo-Saddam potrebbe costituire il campanello d’allarme per la peggiore fine di una guerra nata male e forse finita peggio: la divisione di un Paese fra il Sud sciita, il centro sunnita e il nord curdo pronto a negare il suo petrolio agli uni agli altri.