Opinioni & Commenti

Un’istituzione ancora viva grazie a chi ci sta dentro

di Giuseppe Savagnone

Come un rito, l’inizio dell’anno scolastico si ripete in questi giorni, sia pure scaglionato per regioni (in Toscana si riparte il 15). E, come tutti i riti, ha le sue costanti, in assenza delle quali avremmo difficoltà a riconoscerlo. Le disfunzioni, i ritardi, le proteste, le polemiche, non mancano neppure stavolta, anzi le ultime sono rese ancora più violente, e in certi casi drammatiche, dall’enorme crescita della disoccupazione che la linea del ministro Gelmini sta producendo come effetto collaterale. Le vittime sono soprattutto i precari. I tagli di posti, gli accorpamenti di classi e di istituti, hanno lasciato senza lavoro tante persone che da anni, pur non avendo un posto fisso, nella scuola e della scuola vivevano: docenti, personale ausiliario, tecnico e amministrativo, che da un giorno all’altro si stanno trovando a domandarsi come dare da mangiare ai propri figli. Per non parlare dei giovani – in alcuni casi non più tanto – che aspettavano sulla soglia, speranzosi di poter finalmente entrare, e che ora vedono allontanarsi e forse svanire definitivamente l’agognata mèta. Ma ci sono anche i docenti di ruolo, che non possono essere licenziati e che la politica in atto sta lasciando senza cattedra.

Certo, non si può addossare tutta la colpa al ministro. Ci sono, alle spalle, decenni di mancata programmazione, di irresponsabile provvisorietà, di interessi particolaristici, e non solo da parte dei governi e della classe politica, ma anche dei sindacati. Prima non si era prevista la scuola di massa, e i meccanismi delle assunzioni si sono inceppati, producendo una folla di precari. Poi non si è prevista la crisi prodotta dalla denatalità, e ora di queste persone – di cui però ci si è serviti – non si sa più cosa farne. Di suo la Gelmini ci ha messo l’acquiescenza a una linea politica dell’intero Governo per cui, invece di puntare su una riforma effettiva e radicale, che avrebbe richiesto investimenti paragonabili a quelli che fanno nel loro sistema di istruzione gli altri Paesi industrializzati (per esempio pagando i professori con stipendi che attirano i migliori), si sono ridotti questi investimenti anche rispetto al già magro passato e si è definita «razionalizzazione» questa riduzione.

Questo non deve far dimenticare i meriti del ministro, soprattutto quello di aver proseguito e accentuato lo sforzo iniziato dal suo predecessore per restituire alla scuola una dignità che la prassi dei «debiti formativi» non saldati aveva compromesso. Anche lo sforzo di ricollegare – riproponendo l’importanza del voto di condotta – dimensione culturale e stile comportamentale, che una dissennata scelta politica aveva separato, è a nostro avviso un fattore di cui anche in questo nuovo anno scolastico si vedranno gli effetti positivi. Non si può rinunziare alla dimensione educativa della scuola in nome di una mera competenza. Se mai, al posto del ministro, avremmo evitato i continui proclami di stare effettuando una «riforma epocale». Si sono rimessi al loro posto dei paletti che erano saltati, si sono riportati al loro numero originario i percorsi che una corsa alle sperimentazioni aveva inflazionato e complicato fino all’inverosimile. Ma una riforma seria non si fa a costo zero. Che poi i soldi in Italia non ci siano, sono le cronache quotidiane a dire che non è vero: solo, si preferisce spenderli, talora anche sperperarli, in altre cose.

E allora, non c’è proprio nulla da sperare per i ragazzi che tornano a riempire le aule in questi giorni, per i loro professori, per il personale ATA, per i dirigenti scolastici? Questo potrebbe pensarlo solo che crede che la scuola la facciano i governi e i ministri. Senza minimizzare i problemi gravissimi a cui accennavano all’inizio e che pesano come macigni sulla vita di tanta gente (in un’Italia dove l’industria degli yacht è fiorente!), è vero però che la scuola va avanti, con un pizzico di salutare incoscienza, anche in mezzo a tanti disastri, anche in mezzo ai tagli, agli accorpamenti, alle disfunzioni.

Perché ci sono professori che, anche pagati poco e senza speranza di carriera, hanno ancora l’entusiasmo di insegnare. Perché ci sono collaboratori (i vecchi «bidelli»), amministrativi e dirigenti scolastici che sanno ancora stabilire coi ragazzi una relazione umana. Perché gli alunni, se non vengono mortificati e appiattiti da una routine piena di noia, sono sempre capaci di stupore e di desiderio di conoscere.

La scuola, a dispetto di chi ne decreta quasi quotidianamente la morte con analisi catastrofiche, è viva e chi ci sta dentro lo sa. Come sa che questa vita non è un frutto del caso, ma dell’impegno personale, dell’umanità e del senso di responsabilità. E che, a ognuno che in questi giorni varca la soglia delle aule scolastiche, è chiesto, ancora una volta, di dare il proprio contributo, grande o piccolo che sia, perché essa, malgrado tutto, continui a fiorire.