Opinioni & Commenti

Restituiamo ai giovani la speranza del futuro

di Adriano Fabris

C’è un’emergenza di cui oggi non si parla abbastanza. È l’emergenza che riguarda i giovani, i nostri ragazzi, i nostri figli. C’è chi parla di generazione perduta. Ci si riferisce a persone che né ora, e neppure tra dieci o vent’anni, troveranno probabilmente un lavoro stabile. È il 7-8 per cento dei giovani che oggi hanno meno di 35 anni. Giovani che, magari, possiedono un’istruzione superiore, talenti e voglia di fare. E che invece sono condannati, in quanto privi di futuro, a disperdersi nel presente. È una cifra notevole; è uno spreco eccezionale di risorse umane.

Noi adulti, forse, non ce ne rendiamo conto fino in fondo. Anche noi, certo, subiamo gli effetti della crisi: ma sempre all’interno di un sistema che, se offre tutele magari solo entro certi limiti, inquadra comunque il nostro agire in parametri ben determinati. I giovani di cui parlo, invece, non hanno tutele. E rischiano di perdere la loro identità. È stata loro tolta, infatti, la speranza di un inserimento in un progetto di vita conforme alle aspirazioni di ciascuno. Avere un lavoro, crearsi una vita indipendente, farsi una famiglia, costruirsi qualcosa di proprio: in molti, troppi casi tutto ciò è negato.

Di questo noi adulti abbiamo una precisa responsabilità. Non in maniera astratta; non per velleità di autoaccusa. Siamo concretamente responsabili di questa situazione perché, nelle nostre scelte, abbiamo spesso privilegiato l’interesse particolare, il bene proprio, invece che quello di tutti. Abbiamo pensato ai fatti nostri: senza considerare che ciò sarebbe andato anche a discapito dei nostri figli. Abbiamo ristretto i nostri orizzonti. Abbiamo rinunciato, in una parola, ad essere comunità; abbiamo messo fra parentesi l’essere solidali. Abbiamo avuto cura di salvaguardare solo piccoli nuclei ristretti (la famiglia, le parentele), comunque insufficienti per affrontare le emergenze che abbiamo di fronte.

In questo quadro, la necessità di recuperare la prospettiva del bene comune, sollecitata ripetutamente dalla Chiesa cattolica, è qualcosa che intende incidere proprio su questa mentalità. Rispetto a ciò si vuole andare controcorrente. Lo si vuole fare in maniera concreta: chiedendo un mutamento nel nostro modo di pensare il bene pubblico e di agire in conformità di esso. Le parole pronunciate questa settimana dal cardinal Bagnasco in occasione del Consiglio permanente della Cei dicono, a questo riguardo, qualcosa di preciso e d’impegnativo.

C’è infatti un legame molto forte tra il documento che i vescovi italiani hanno dedicato alla sfida educativa, facendone il cardine degli orientamenti pastorali per il nuovo decennio, e quanto è stato elaborato in questi mesi in vista delle Settimane sociali, che si svolgeranno a Reggio Calabria dal 14 ottobre. L’idea di fondo è il riferimento a un senso nobile dell’attività politica. Che non si risolve in una presa di posizione per una parte o un’altra, animata da risentimento e disposta a una lotta senza esclusione di colpi (come abbiamo visto una volta di più anche in questi giorni). Politica è altro. È indirizzare la propria attività pubblica in funzione di un progetto che possa servire al bene di tutti, e non già di una parte. È vivere questo, anche prima che ciò si esprima in specifiche forme di rappresentanza, promovendo la partecipazione e l’interesse di ciascuno. In una parola: è mettere la relazione al centro della propria vita. A questo deve essere riorientata l’educazione: che altrimenti si trasforma, nel migliore dei casi, in una semplice trasmissione di dati. Su questo dev’essere rifondata l’attività pubblica: perché il raggiungimento del proprio bene passa attraverso il perseguimento del bene di tutti. Solo con questo cambiamento di mentalità, allora, potrà essere recuperata la speranza del futuro. Altrimenti essa sarà rubata: anzitutto alle giovani generazioni.