Opinioni & Commenti
Le rivoluzioni in Nord Africa e la miopia di chi investe sul presente e non sul futuro
di Romanello Cantini
Non esistono uffici metereologi per prevedere le rivoluzioni. Specialmente quando arrivano a grappolo e sono sostanzialmente non violente. Ce ne accorgemmo già nel 1989 quando in poche settimane crollarono regimi che erano lì da almeno quaranta anni. Eppure erano regimi che secondo i politologi di allora avevano ancora un lungo futuro davanti a sè e per non pochi ideologi erano addirittura il futuro. Ora un qualcosa di simile sembra che sia accaduto in Nord Africa. Già questi terremoti politici che avvengono per grandi aree con il loro sciame di scosse che va al di là del singolo stato e della singola nazione per investire un mondo intero omogeneo per cultura e solidarietà è sorprendente e consolante. Ci dice infatti che gli uomini, senza eccezioni, si muovono non solo sotto la spinta di condizioni materiali e particolari, ma anche per il richiamo e il contagio di una idea che salta i confini, che ha qualcosa di universale. E questo riconoscersi per grandi temi attraverso grandi aree ci conferma in quella grande speranza che gli uomini alla fin fine sono dovunque figli dello stesso Adamo.
Naturalmente non possiamo di nuovo fare gli indovini dopo aver detto come sia difficile prevedere il futuro. Non sappiamo con assoluta certezza quale sarà lo sbocco finale di movimenti che hanno fatto solo i primi passi anche se vittoriosi. Ma tutto o quasi tutto finora lascia credere almeno finora che si tratta di movimenti che vanno verso la democrazia. Se è cosi, un movimento, nato da un musulmano che in Tunisia si è ucciso senza uccidere e che mira alla libertà dovunque, sconvolge la nostra mente prima ancora di cambiare il panorama politico del mondo arabo e forse dello stesso mondo islamico con ripercussioni in tutto il mondo. Da sempre ci è stato raccontato che il mondo islamico era incompatibile con la democrazia. E non solo negli ultimi dieci anni quando decine di scrittori sono andati a frugare nelle sure del Corano per dimostrare che chi ha già una legge bell’e fatta da Dio non può perdere tempo ad andare ad eleggere un parlamento per fare nuove leggi liberali. E questa incompatibilità è stata teorizzata non solo da destra e per motivi religiosi.
Già mezzo secolo fa, al tempo del nazionalismo arabo, quando i rais spuntavano come funghi era la sinistra a teorizzare che l’esercito era in sostanza il vero corpo elettorale democratico di paesi che non erano adatti alla democrazia. Ora di fronte a quello che sta succedendo ci accorgiamo di aver dato agli uomini che in fondo sono tutti uguali diplomi di abilità e disabilità secondo la loro cultura come faceva un secolo fa Max Weber quando sosteneva che il capitalismo era roba da protestanti, e il sottosviluppo era roba da cattolici e da indù.
In realtà più modestamente se ci fossimo ricordati dei secoli che ci sono voluti agli europei per diplomarsi in democrazia e anche della lezioni dei nostri bisnonni liberali che davano la scheda solo a chi aveva già un po’ di soldi o aveva imparato l’abbecedario dovremmo dedurne che l’esigenza della democrazia nasca quando c’è un boccone di benessere e un certo livello di istruzione. E queste sono le cose che i vari Ben Alì, Mubarak e Gheddafi hanno in sostanza concesso negli ultimi anni senza dare la democrazia che ora arriva da sola.
Le rivoluzioni degli ultimi trenta anni sono rivoluzioni senza preavviso, senza sangue, senza leader e senza ideologia. Anche per questo non vanno a finire in nuove dittature. Ma quando una rivoluzione capita senza un Rousseau o un Marx che l’abbia preparata e senza un Robespierre o un Lenin che l’abbiano realizzata allora appare agli intellettuali e ai politici una invasione di extraterrestri o un incidente stradale occorso alla storia. Proprio così. «La storia è uscita dai binari» disse Gorbaciov nel 1989. Il crollo dell’esistente fa sentire spaesati e fuori del mondo i «realisti» abituati a muoversi nel vecchio museo delle cere dove ognuno si fa trovare sempre al suo posto e fa gongolare gli «utopisti» come avrebbe fatto ora (me lo vedo) Giorgio La Pira sbandierando gli atti dei suoi Colloqui mediterranei.
Anche il nostro governo si è fatto sorprendere fra i «realisti». Da soli due anni aveva fatto un investimento su una ditta che ormai è fallita pagando con il risarcimento della invasione degli italiani di ieri un Gheddafi che in cambio avrebbe dovuto stoppare l’invasione verso l’Italia degli africani di oggi. Quando si chiedeva ai rappresentanti del governo italiano che cosa avessero fatto negli ultimi anni tiravano fuori dal cassetto quasi sempre solo due argomenti: l’aumento degli arresti dei mafiosi e l’arresto dell’immigrazione, grazie all’accordo con Gheddafi.
Quando gli avvenimenti hanno costretto a togliersi dal petto la seconda medaglia il nostro governo, anzichè rallegrarsi che tutti i paesi nordafricani si avvicinassero ora politicamente all’Italia ha continuato a preoccuparsi soltanto dei barconi che arrivavano a Lampedusa. Dopo l’arrivo di seimila tunisini si è lanciato l’allarme, o meglio si è diffuso l’allarmismo, dell’arrivo di altri centinaia di migliaia di clandestini che almeno finora non sono stati avvistati all’orizzonte e si e chiesto all’Europa di fare la supplente di Gheddafi prendendosi lei i nostri potenziali immigrati e sentendosi rispondere che gli stati europei avevano concesso più diritti di asilo di noi. Sono queste le conseguenze di chi investe sul presente e non sul futuro, su chi c’era ieri e non su chi ci potrebbe esserci domani come questa volta sta invece facendo (ed anche questa è una grande novità in cinquanta anni di politica americana nel Medio Oriente) il presidente Obama. Né il rischio che ci sia anche qualche cellula di Al Qaeda nel Nord Africa è un motivo sufficiente per diffidare di tutto il nuovo che avanza. Anche Gheddafi del resto non scherzava in fatto di fanatismo. Fu lui a decretare che il giorno in cui era stato assassinato Sadat perché aveva fatto la pace con Israele doveva essere ogni anno festeggiato in Libia come ricorrenza nazionale.