Opinioni & Commenti
Giornata della pace, un messaggio agli adulti per arrivare al cuore dei ragazzi
di Franco Vaccari
Ci sono giovani che nascono in terre segnate da conflitti e guerre. Nascere lì significa per loro portare, incolpevoli, il marchio indelebile del «nemico». Prima ancora di corrispondere a Issa o George o Loai, questi sono nomi di palestinesi, dunque nemici di ogni israeliano: la persona è dissolta dall’etichetta che la storia le ha imposto: «nemico». Così è anche per i tanti Guy, Galia, Elad: anch’essi, prima di essere persone sono israeliani, dunque inesorabilmente nemici di ogni palestinese. E questa dinamica scellerata può continuare da un paese all’altro, da un popolo all’altro, quasi all’infinito.
È la storia malata di generazioni di adulti che hanno tradito il compito dell’amore paterno e materno: consegnare ai figli un cibo buono, non avvelenato. Vittime a proprio turno di un’altra generazione segnata da sofferenze e lutti, non riescono a rovesciare la storia, a consegnare un antidoto, un vaccino contro la violenza e la guerra, così l’odio e la distruzione dilagano nel tempo senza alcun filtro. L’educazione ha fallito così come fallisce, magari in contesti meno drammatici, quando un adulto dà, più o meno coscientemente, le dimissioni dalla propria responsabilità di educatore. Sì, c’è una educazione professionale o di ruolo e ce n’è una diffusa che accomuna tutti gli adulti che inevitabilmente sono i modelli di riferimento della crescita dei giovani: nei pensieri, nelle parole, nei comportamenti. Chi si vuole prendere cura dei giovani deve dunque parlare agli adulti, ad ogni adulto, modello cogente o non cogente, ma pur sempre modello.
È esattamente quello che ha compiuto Papa Benedetto XVI nel suo messaggio per la 45a Giornata mondiale della pace: un appello per risvegliare il compito universale di educatore diffuso in tutti gli adulti oltreché quello concentrato in alcune professioni o ruoli sociali come quello altissimo di genitore.
Ogni conflitto perpetra la tragedia immortalata da Shakespeare nella rivalità ottusa e mortifera consegnata dai Capuleti e dai Montecchi ad ogni sciagurato Romeo e Giulietta. Il tentativo drammatico e, a volte, tragico di uscire dalla storia avvelenata che gli adulti hanno costruito e trasferito ai figli, accompagnandola con la violenta consegna di restare «fedeli» all’operato «pagato col sangue», porta a riflettere ex post, ma non inaugura nuovi sentieri di speranza. Quante faide, quante storie di violenza senza fine in mille volti diversi. Quante apparenti ragioni disseminate in ogni terra! Quanta cultura malata ha diffuso il veleno quotidiano della violenza, armando alla fine la mano di qualche disperato che si è incaricato di compiere il gesto visibile ed eclatante senza più ritorno!
Per questo il Santo Padre si rivolge a tutti gli adulti, esortandoli nuovamente a educare, che «significa condurre fuori da se stessi per introdurre alla realtà, verso una pienezza che fa crescere la persona». E siccome «il processo dell’educazione si nutre dell’incontro di due libertà, quella dell’adulto e quella del giovane», il Papa si rivolge direttamente ai giovani veri destinatari finali del messaggio di quest’anno invitandoli ad «avere la pazienza e la tenacia di ricercare la giustizia e la pace anche quando ciò può comportare sacrificio e andare controcorrente».
Abbiamo bisogno di giovani così. Ne abbiamo un disperato bisogno, non meno di quello di adulti che, comprendendo quanto hanno già avuto dalla vita, decidono l’esodo della maturità il più difficile e affascinante insieme quell’esodo che trovò Nicodemo sconcertato e affaticato: donarsi. Non c’è età inadatta per rinascere, per trasformare l’incanto di queste ore davanti al presepio da evasione emozionale a impegno personale. Rifiutare tale prospettiva, chiudersi in se stessi: «Diventa per ciascuno una prigione, perché separa l’uno dall’altro, riducendo ciascuno a ritrovarsi chiuso dentro il proprio io». Benedetto XVI docet.