Opinioni & Commenti
A chi giova mettere in ginocchio l’Italia?
di Domenico Delle Foglie
Quando il proprio Paese è in difficoltà, è un buon inizio domandarsi cosa si debba assolutamente evitare. I giorni che abbiamo alle spalle ci hanno offerto un campionario assortito dell’evitabile. Tutto molto lontano da quel bene assoluto che è la coesione sociale e nazionale, soprattutto quando le condizioni finanziarie generali sono traballanti, la moneta unica europea continua a lanciare messaggi di debolezza, le previsioni economiche sono tutte in negativo per almeno due anni.
Prendiamo il caso degli autotrasportatori italiani e dei «forconi» siciliani, forse la forma più eclatante di protesta messa in campo negli ultimi dieci anni. Per trovare qualcosa di simile bisogna tornare indietro nel tempo alle manifestazioni per le «quote latte», anch’esse figlie di uno strano connubio territoriale e settoriale sul quale soffiava forte il vento leghista.
Le cronache ci hanno consegnato l’immagine di un Paese letteralmente paralizzato in uno dei suoi snodi strutturali fondamentali: il trasporto su gomma. Ma strano a dirsi, la grande stampa e la tv italiana si sono mostrate timide nel raccontare le difficoltà che hanno toccato tutti i cittadini, sia nelle vesti di produttori sia di consumatori. Gli scaffali vuoti dei supermercati, la benzina razionata e le grandi e piccole fabbriche bloccate per giorni, sono effetti secondari e sottovalutabili? Purtroppo, chi ha memoria lunga ricorda, e lo fa sottovoce per non spaventarsi e non far spaventare gli altri, che qualcosa di simile si vide nel Cile di Allende. E aprì la strada al golpe del generale Pinochet. Per carità, nessuna analogia con l’Italia di Napolitano e Monti, ma un Paese si può ammalare anche per poca memoria. Soprattutto se si va avanti a protestare anche quando il governo interviene, come nel caso degli autotrasportatori, con aiuti concreti.
Vogliamo parlare dei taxisti? Anche loro mossi dalla necessità di una protesta preventiva, hanno usato parole grosse del tipo «scateneremo l’inferno». Sappiamo come è andata a finire. E poi i pescatori che a Roma hanno ingaggiato una battaglia di piazza con le forze di polizia schierate davanti a Montecitorio. Ogni categoria che sia in grado di paralizzare le città e i servizi sta forzando la mano, spesso scavalcando le proprie legittime rappresentanze sindacali.
Poiché i prossimi due anni registreranno di sicuro una compressione dei redditi, non possiamo rassegnarci al ricatto di questa o quella categoria. Così come non vogliamo e non possiamo sottacere le ragioni, vere, di disagio e sofferenza di tanti altri lavoratori. Nella consapevolezza che i sacrifici li stiamo già facendo tutti noi, cittadini e contribuenti. Di sicuro con le tasse, ma anche con i danni collaterali: vedi i nostri figli ultramaggiorenni che sono sempre senza lavoro.
Ma ribadiamo la domanda: la scelta della piazza a prescindere, l’adozione di forme di lotta che colpiscono indiscriminatamente gli altri cittadini, la sistematica delegittimazione delle rappresentanze sindacali, sono davvero la strada giusta per garantire la coesione sociale e nazionale, bene primario per un Paese in grave affanno? Noi abbiamo seri motivi per dubitarne. E abbiamo anche il diritto di chiederci a chi giovi mettere in ginocchio l’Italia.