Opinioni & Commenti
Siria, un balbettio internazionale
di Riccardo Moro
È particolarmente opprimente osservare quanto sta avvenendo in Siria. La situazione è degenerata in modo ormai irreversibile con una deflagrazione della violenza che sta uccidendo quotidianamente decine di vite umane, mentre la comunità internazionale assiste incapace di offrire una soluzione.
Il Paese, composto da una pluralità di etnie, è stato retto sinora dalla minoranza alauita, cui appartiene la famiglia del presidente-dittatore Assad, che si sosteneva su una stabile alleanza con numerose altre minoranze presenti nel Paese, compresa quella cristiana. A differenza di quanto avveniva in Libia, dove il potere era centrato su un uso personale della violenza e della corruzione in un contesto nazionale caratterizzato dalla divisione fra le tribù, in Siria la concentrazione di un potere spregiudicato nelle mani della famiglia Assad è consentita da un rispetto attento dei rapporti con le minoranze alleate. È probabilmente per questa ragione che l’esercito è rimasto unito in questi mesi, conducendo campagne di notevole violenza sul territorio nazionale. Ed è in ragione di quella alleanza che negli scorsi anni Bashar al Assad si legittimava come ponte determinante di comunicazione tra Iran e componenti del fondamentalismo sciita da un lato e resto del mondo arabo, e indirettamente Occidente, dall’altro.
La coesione delle alleanze interne sembra oggi particolarmente indebolita dal perdurare di quella che è ormai impossibile non chiamare guerra civile. Lo testimoniano, pur nella contraddittorietà delle notizie, le defezioni di molti generali e molti politici del regime, ultima quella del premier sunnita Riyad Hijab, che si è rifugiato con la famiglia in Giordania e ha annunciato di essere da ora in poi un soldato di questa rivoluzione benedetta. A questo indebolimento non corrisponde ancora, peraltro, un processo di aggregazione politica maturo di chi si oppone al regime. Sul piano militare la contrapposizione all’esercito lealista è condotta soprattutto dall’Esercito Libero Siriano, composto in parte rilevante, ma non solo, da fuoriusciti dell’esercito regolare e guidato dal Colonnello Riad al Asaad. Su quello politico si è formato a Istanbul il Consiglio Nazionale Siriano che raccoglie numerose componenti dell’opposizione. La relazione tra i due organismi non è organica, frequente è la competizione, anche se l’aumento della violenza ha portato ad una sorta di riconoscimento reciproco de facto. In ogni caso, come per tutti gli organismi che non sono frutto di un processo democratico trasparente e legale, si tratta di aggregazioni vulnerabili a molte tentazioni, da quella della violenza crudele (sono stati riportati numerosi atti di crudeltà e torture non solo da parte delle forze lealiste ma anche da quelle dell’esercito di liberazione) a quella di pretendere di rappresentare l’unità del Paese in un gioco funzionale solo alla presa del potere da parte di una nuova élite.
In questo contesto faticoso la comunità internazionale balbetta. Paesi come Qatar e Arabia Saudita sostengono gli oppositori. Cina e Russia, dopo l’esperienza libica, pongono il proprio veto ad un intervento militare promosso da parte Onu. Al Qaeda invita a sostenere l’esercito di liberazione per adottare politicamente gli oppositori, mostrando così di dare per imminente la caduta del regime. I Paesi più democratici pronunciano parole severe contro Assad, ma di fatto assistono agli eventi senza una iniziativa politica palese. La situazione è ingessata in uno stallo che tutti sanno non possa durare ma che nessuno sa come sciogliere. Persino l’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Hannan, incaricato di svolgere una mediazione per la soluzione del conflitto, ha nei giorni scorsi rinunciato al suo incarico. È uno smacco grande per il multilateralismo: constatare che la cultura di pace non ha parole né mezzi efficaci per interrompere lo scorrere del sangue.
Alle lacrime di oggi si accompagna la preoccupazione per il domani. Quando le armi esauste si fermeranno, ci sarà terreno per una pace autentica o il rancore alimenterà nuovo odio e nuovi cicli di violenza?
Rabin diceva che la pace si fa con i nemici: occorre avere la volontà e il coraggio di sedersi allo stesso tavolo e testardamente parlare con tutti, anche con chi ha le mani sporche di sangue. Occorre farlo con coraggio e senso di responsabilità, coniugando la prudenza e l’astuzia del serpente con la purezza e la libertà della colomba.