Opinioni & Commenti
Il Papa in Libano con la preoccupazione della guerra in Siria
di Romanello Cantini
I temi che furono posti al centro del Sinodo dei vescovi del Medio Oriente due anni fa rimangono ancora attuali. Alcuni di essi, come il mancato rispetto della libertà religiosa e l’emigrazione, forse si sono aggravati. Basti pensare alle ostilità verso i cristiani, che sembrano crescere in Egitto, e ai centomila profughi che negli ultimi mesi hanno abbandonato la Siria. Altri temi, come il dialogo con l’Islam, sembrano avere fatto dei progressi proprio in Libano come ha dimostrato la manifestazione a Beirut di mercoledì scorso a cui, in nome della devozione a Maria e in preparazione della visita del Papa, si sono ritrovati insieme cristiani e musulmani.
Tuttavia la visita del Papa in Libano ora non solo va incontro al paese con la più forte anche se frammentata ed erosa comunità cristiana del Medio Oriente, ma inevitabilmente sfiora e tocca da vicino il dramma della guerra civile siriana. La Siria è stata presente in Libano con il suo esercito fino a pochi anni fa e per decenni, fino ad oggi, anche la politica interna siriana si è giocata fra le fazioni prosiriane e antisiriane. Solo che da almeno trent’anni i cristiani libanesi non si identificano più meccanicamente, come accadeva al tempo della leadership della famiglia Gemayel, con il movimento antiarabo e antisiriano. Anzi nei tempi più recenti importanti protagonisti cristiani della politica libanese come l’ex-presidente della repubblica Suleiman Frangieh, il generale Michele Aoun e il generale Emile Lahoud si sono schierati apertamente con la Siria. In altre parole fra gli stessi cristiani ci si divide ormai di fronte all’atteggiamento da tenere verso Damasco. D’altronde una buona parte dei cristiani libanesi, come del resto dei ben più ridotti cristiani siriani, teme che il crollo del sistema politico siriano significhi una perdita di libertà religiosa per i cristiani come è accaduto in Iraq.
Recentemente il patriarca maronita Bishara Rai ha detto francamente: «Sosteniamo lo stato, non il regime siriano. In Iraq dopo Saddam Hussein se ne sono andati un milione di cristiani». Per la verità non ci sono finora segni che i rivoltosi siriani si accaniscano contro i cristiani. Le aggressioni avvenute a Qara contro padre George Luis e contro il monastero di Deir Mar Musa vicino a Nebek sono avvenute solo per rapina nel caos che accompagna ogni guerra civile. Tuttavia i cristiani temono che l’ostilità che i rivoltosi mostrano contro la minoranza alauita anche quando non prende le armi per difendere Assad possa rivolgersi domani contro di loro. Il fatto che in Siria ci siano ormai molti combattenti stranieri e che fra il principali rifornitori di armi dell’opposizione ci sia un paese come l’Arabia Saudita alimenta i sospetti anche ingiustificati di chi si sente insicuro.
Il Papa che arriva a Beirut sa che il primo Paese che può essere contagiato dalla guerra civile siriana è proprio il Libano dove da un lato Assad può contare sulla fedeltà della potente milizia degli Hezbollah e dall’altro è ancora caldo l’odio di chi accusa la Siria dell’assassinio del premier Rafiq al-Hariri. D’altra parte la rivoluzione siriana non somiglia completamente alle altre rivoluzioni della cosiddetta «primavera araba». Prima di tutto perché il regime d’Assad, anche se a prezzo di terribili massacri, resiste ormai da un anno e mezzo. In secondo luogo perché la guerra civile siriana si è ormai internazionalizzata con russi e cinesi da una parte e americani e europei dall’altra e l’esperienza dimostra che le guerre per procura sono quelle che durano più a lungo perché chi ci guadagna non ci mette il sangue. In terzo luogo perché anche la causa dei ribelli è un po’ offuscata dopo che il rapporto dell’Onu del mese scorso ha sottolineato che anche i ribelli hanno commesso crimini di guerra seppure in misura di gran lunga minore rispetto ai crimini commessi dalle truppe governative.
In sostanza in attesa di un intervento internazionale che non verrà e che, se venisse, incendierebbe tutto il Medio Oriente con una guerra che andrebbe dalla Turchia all’Iran, considerati i massacri di ogni giorno che passa e i rischi che il cronicizzarsi di questa guerra comporta, il caso siriano sembra essere uno di quei casi in cui Gandhi avrebbe consigliato di cercare la pace prima ancora della giustizia. In pratica oggi forse è meglio una soluzione politica in alternativa ad una vittoria quasi certamente impossibile e sicuramente sempre più sanguinosa. È quello che ha detto il Papa domenica scorsa: «L’impegno per la pace e per la riconciliazione deve essere prioritario». Il 29 luglio scorso Benedetto XVI aveva chiesto esplicitamente «una adeguata soluzione politica del conflitto». E il direttore della sala stampa padre Federico Lombardi Lombardi aveva precisato che nella soluzione politica ci doveva essere l’allontanamento di Assad.