Arte & Mostre
Cimabue: torna al suo posto il «predicatore muto»
Ma l’opera di Cimabue pretende anche una considerazione sul suo valore d’icona: «Nell’ampia tesissima curva descritta dal carpo trafitto di Cristo, nel contrarsi spasmodico delle muscolature, nel volto segnato dalla sofferenza, nell’atroce inarcarsi delle membra del Cristo, è perfettamente evidenziata ebbe a dire il vescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, Gualtiero Bassetti la realtà dell’uomo dei dolori: colui che come dice Isaia, conosce il patire e porta su di sé i pesi di tutti: Disprezzato e reietto dagli uomini. Uomo dei dolori che ben conosce il patire… disprezzato…. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui: per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Il genio di Cimabue ha saputo comporre con linee e colori una muta praedicatio. Una predica cioè senza parole. E non a caso il Crocifisso è nella chiesa aretina dei frati predicatori. Muta praedicatio che oggi più che mai ha il suo compito, la sua indubbia efficacia formale, di affiancare, di completare, di fermare nel nostro spirito il senso, altrimenti vuoto, di tanti devoti discorsi, di molte pie riflessioni di più o meno dotte esegesi. Questo Crocifisso, per un commovente miracolo di fede e di arte, è davvero una ininterrotta invocazione pittorica, una continua preghiera visiva, rivolta attraverso Cristo crocifisso al Padre misericordioso».
Anche chi non crede non può non essere coinvolto tanto dal soggetto quanto dalla qualità dell’esecuzione, dall’immane portata del messaggio di amore e di pietà che rappresenta. Gli aretini ne sono coscienti, così come riconoscono la fortuna di custodire l’opera di Cimabue di gran lunga meglio conservata, grazie anche all’ultimo prezioso restauro. Cimabue, infatti, come sostiene lo storico dell’arte Luciano Bellosi, «è un pittore estremamente sfortunato. Molte sue opere sono andate perdute e quasi tutte quelle che sono arrivate a noi si trovano in uno stato di conservazione miserevole. Il Crocifisso di Santa Croce, giunto pressoché intatto ai tempi nostri, è stato quasi distrutto dall’alluvione di Firenze del 1966. Nel settembre 1997 il terremoto ha fatto crollare una delle lunette della volta degli Evangelisti nella Basilica di San Francesco ad Assisi, la chiesa che ci conserva una sua grande complessa decorazione murale, peraltro anch’essa molto malandata. Sicché si può dire a ragione che il Crocifisso di San Domenico ad Arezzo sia la sua opera di gran lunga meglio conservata» e il restauro «ne ha rivelato meglio le ottime condizioni e ha riportato alla luce colori che si erano oscurati».