«Per una serie di coincidenze fortunate non abbiamo avuto lutti in famiglia legati alla persecuzione razziale, se non quello della morte in esilio del fondatore. Siamo stati fortunati; tuttavia ciò non toglie che ci sia stata tutta una serie di ingiunzioni che riguardano sia la vita aziendale che quelle personali, magari in secondo piano rispetto al dramma della Shoah della deportazione, e il porle in luce forse dà anche un’idea di come il quotidiano avesse delle valenze incredibili e a tutt’oggi inconcepibili». A parlare è Daniele Olschki, attuale titolare dell’omonima casa editrice fiorentina e pronipote del fondatore Leo Samuele. Lo incontriamo nella bella sede dell’azienda, il cinquecentesco edificio del Palagio, tra Firenze e Bagno a Ripoli, proprio per farci raccontare le traversie allora vissute e poterne far quindi memoria, in occasione della giornata che si celebra il 27 gennaio.Giunto nel 1897 a Firenze, dove aveva trasferito da Venezia la casa editrice fondata in precedenza a Verona nel 1886 e successivamente acquistato quella che sarebbe diventata la tipografia Giuntina, Leo Samuele Olschki – nonostante la stima e l’apprezzamento di cui largamente godeva – aveva avuto già a che fare, negli anni della prima guerra mondiale, con le invettive dei nazionalisti, che ne avevano fatto un loro bersaglio in quanto ebreo tedesco dal cognome polacco, e prese quindi una prima volta la via dell’esilio trasferendosi a Ginevra dove fondò la Salso, Societé Anonyme Leo S. Olschki, per poi rientrare in Italia alla fine del conflitto, ottenendo in seguito riconoscimenti per la sua attività quali la nomina a commendatore e cavaliere di Gran Croce della Corona d’Italia. Con l’avvento delle leggi razziali, la situazione cambiò drasticamente. «Una settimana dopo la loro promulgazione – racconta ancora Daniele Olschki – arrivò una prima richiesta incredibile a firma del ministro Alfieri in cui si chiedeva di comunicare al ministero i nomi di tutti gli appartenenti alla razza ebraica all’interno dell’azienda e anche tra gli autori dei titoli di tutto ciò che avevamo pubblicato. Passata un’altra settimana, una lettera ancora più stringata imponeva di cambiare il nome dell’azienda con “altro ariano”. Mio bisnonno, personaggio molto particolare con una concezione dell’ego smisurata, non accettò assolutamente questa imposizione e scrisse al marchese Ridolfi una durissima lettera in cui affermava di bloccare l’attività dell’azienda in attesa di ricevere le scuse dal ministero e una ritrovata onorabilità che lui riteneva di dover aver tutelata. Da parte loro, i figli Cesare e Aldo si dettero molto da fare con il ministero, attraverso la persona di Giovanni Gentile, per ottenere la cosiddetta discriminazione per meriti che esentava dall’essere assoggettati alla richiesta ricevuta».Per tutto il 1938 la situazione resta in stallo, poi l’aggravarsi delle norme attuative obbligano al cambio del nome: l’azienda diviene Bibliopolis e passa nominalmente alle mogli di Cesare e Aldo, che erano ariane, ma il marchio resta lo stesso, perché le iniziali L.S.O. diventano la sigla del motto «Litteris servabitur orbis», il mondo sarà salvato dalle lettere, auspicio tutt’altro che banale in un tale periodo. Nel 1939 il fondatore riprese la via dell’esilio per la Svizzera, dove morì nel 1940 a 79 anni.«Il percorso della famiglia – continua il titolare della storica casa editrice – fu ovviamente molto difficile. Agli Olschki, imparentati attraverso una sorella di Aldo con i Rosenthal, fu suggerito da questi ultimi, che avevano già provveduto a espatriare, di seguire il loro esempio. Cesare lo fece, riuscendo dopo varie peripezie a raggiungere la Svizzera; mio nonno Aldo invece, vivendo in una candida dimensione, diceva: “io non ho mai fatto male a nessuno, perché dovrebbero farlo a me?”. Il massimo che fece, pertanto, fu decidere di rifugiarsi in campagna. Noi avevamo una casa molto appartata in mezzo ai boschi di Roveta in cui trovò rifugio. La sua fama di uomo buono che aveva sempre fatto del bene, in effetti, fecero sì che non ci fosse nessuna delazione nei suoi confronti, quindi riuscì a passare questo periodo senza pericoli pur avendo anche alle spalle un processo avuto da sua figlia Marcella, cioè mia zia, in seguito a una cartolina offensiva mandata a un professore fascista. Inoltre mio padre Alessandro, anche lui rifugiato lì in campagna, ebbe un breve uno scontro a fuoco con un drappello di fascisti; ovviamente fu costretto ad abbandonare la famiglia e scappare ma nonostante tutto la cosa non ebbe esiti per Aldo».Un destino benevolo, quindi, continuava ad accompagnare la famiglia, che come detto non soffrì la perdita violenta di vite. «Ci fu invece – prosegue Daniele Olschki – quella di tutte le proprietà dell’azienda. Avevamo raggiunto alla soglia del ’38 la massima espansione come casa editrice, avendo la sede a Ginevra fondata dal mio bisnonno, una succursale romana con un villino d’appoggio che fu praticamente requisito dal gerarca Ettore Muti e che quindi perdemmo già prima della guerra, mentre gli edifici fiorentini, compreso il villino Liberty costruito da Leo Samuele a ridosso del Mugnone, andarono perduti con il passaggio del fronte. Uscimmo dalla guerra praticamente distrutti ma vivi, il che fu una grande fortuna perché altrimenti io non sarei qui, considerate le peripezie di mio padre Alessandro che fu costretto a girare per l’Italia cercando poi rifugio in Vaticano». Sul padre, aggiunge, ci sarebbe da scrivere un libro, perché a un certo punto, dopo l’arrivo a Roma degli americani, conoscendo l’inglese divenne l’autista di Frederick Hartt, tenente nella Divisione Monumenti, belle arti e archi dell’VIII Armata americana, cui fu affidata la tutela delle opere d’arte della Toscana, e partecipò poi al recupero di quelle rubate dai nazisti.Non mancarono però personaggi vicini agli Olschki con i quali la sorte non fu altrettanto benevola, e l’editore non può fare a meno di ricordarli. «Pensiamo all’editore emiliano Angelo Fortunato Formiggini, carissimo amico di famiglia che si suicidò dopo l’emanazione delle leggi razziali, evento che sconvolse tutti. E non solo: il proto di mio bisnonno era Schulim Vogelmann, padre di Daniel Vogelmann, deportato con la famiglia ad Auschwitz, dove la moglie e la figlia furono passate per i forni e solo lui tornò, perché fu utile ai tedeschi per via del suo lavoro».Dopo la guerra, tornato il sereno, la famiglia di editori riparte con grande fatica ma beneficia successivamente della generale ripresa economica degli anni Sessanta e oggi prosegue la sua opera incentrata in particolare sulle scienze umanistiche. Ma la memoria di quei giorni difficili non viene meno e Daniele, per mantenerla viva, ha deciso di metterla nero su bianco in un piccolo libretto che ha concluso con queste parole: «Alla mia generazione, che ha avuto la fortuna di non vivere quei momenti è stato affidato il compito di ricordare e trasmettere alla successiva la testimonianza di quanto avvenne, al fine che non abbia più a ripetersi».