Cultura & Società

Il giorno dei cimiteri: a Col di Favilla, il minuscolo camposanto all’ombra delle Apuane

Niente dà la dimensione del riposo eterno come salire al Colle di Favilla (nel comune di Stazzema, in provincia di Lucca) e visitare il minuscolo camposanto all’ombra del Pizzo delle Saette: un quadrato di terra benedetta cinto da mura dove una ventina di lapidi tramandano nomi e date: Poli, Babboni, Soraggi, Cipollini i cognomi più ricorrenti; la durata media della vita, a un conto rapido, risulta piuttosto bassa a motivo del frequente ricorrere di incidenti e di parti travagliati. Commuove il volto di un angelo a occhi bassi, intenerisce l’errore di grammatica. Muffe e licheni hanno corroso alcune lettere: si ricostruisce a mente e funziona.Il sentiero che porta al cimitero muove dalla chiesa e per breve tratto si stende leggermente in salita fra due file di fanie. Il silenzio è sovrano, non lo intaccano né il canto di uccelli né il lento cader di foglie. La nebbia contribuisce a creare l’illusione di essere parte del corteo funebre che accompagna la bara: il cuore soffre il definitivo distacco che la speranza di resurrezione lenisce appena: «io credo risorgerò, questo mio corpo vedrà il Salvatore..». Di palata in palata la terra nasconde la cassa e si addensa in un cumulo su cui il becchino pianta la croce di legno provvisoria. Sarà duro, rientrando in casa, rimuovere la giubba dal chiodo e avvicinarsi al letto vuoto. Toccherà al tempo e alla fede spianare la via e ricomporre. Il tempo scorre giocoforza come altrove e la fede non manca ché al Colle fu la cifra di ogni abitante, il collante del piccolo gregge di famiglie che nel Pastore trovavano guida e conforto. E al Pastore celeste si accompagnarono i pastori in terra, due e di raro spessore: don Celestino Vannucci e don Cosimo Silicani, padri, guide, presenze necessarie e insostituibili. Don Cosimo, già avanti negli anni, espresse il desiderio di essere sepolto quassù dove aveva trascorso gran parte della vita. Nel 1950, a otto anni dalla morte, le sue ossa furono riportate in processione da Pruno «a casa» e collocate sotto l’altare in chiesa. Negli anni Settanta il paese fu messo a soqquadro da vandali scatenati e la chiesa fu profanata al pari del cimitero.La sottoscritta ebbe modo di vedere coi propri occhi la piccola bara bianca squarciata. I collettorini rimediarono all’oltraggio costituendosi in un comitato che il 29 luglio del 1979 festeggiò solennemente il recupero degli spazi sacri. Purtroppo andò perduta, perché data alle fiamme, la cantoria che don Cosimo aveva intagliato dando prova di valente ebanista, dote che si sommava a quelle di maestro di scuola, cacciatore, legnaiolo, guida alpina e aedo. Al tempo al Colle era un microcosmo in cui ferveva la vita.Adesso il Col di Favilla è un paese fantasma, un rosario di case sgranate fra la Pania e il Corchia, a valle l’azzurro del lago di Isola Santa. La struttura del borgo è inalterata, parzialmente intatti i quartieri: la Rave, Col di Vanni, alle Verghe…, alcune case sono restaurate e sbarrate, altre mostrano l’interno dagli occhi vuoti delle finestre. Il nome riassume in due parole la posizione, un colle che si allunga fra le vette Apuane e il motivo per cui il paese nacque, prosperò e si spense nell’arco di un secolo: Favilla è per via delle minuscole braci ballerine che sprigionavano dalle carbonaie, vivide specialmente nel buio della notte quando fanno concorrenza alle stelle. La vicenda del Colle andò infatti di pari passo con quella del carbone naturale a partire da quando, verso metà Ottocento, le capanne della transumanza, abitate stagionalmente, lasciarono il passo a dimore in muratura che accolsero famiglie emigrate dai paesi vicini: Levigliani, Pruno, Terrinca, Sassi; cento anni dopo, quando il carbon fossile spodestò il naturale ebbe iniziò l’agonia e i collettorini, poco alla volta, scesero in pianura. Scesero e risalirono, per brevi periodi, per le ferie, per la festa di Sant’Anna, per i morti quando si benediva ancora il cimitero nel giorno di Ognissanti. Salivano col sacco di ghiaia che imbianca le sepolture, con mazzi di fiori raccolti nei giardini e con i lumi, uno per defunto, una schiera per ogni tomba.Allora il parroco di Levigliani, nella cui cura ricade il Colle, diceva Messa nella cappella del camposanto e aspergeva con acqua benedetta ogni rettangolo di terra. Poi, col passare degli anni e l’allentamento delle memorie, sopraggiunse l’abitudine di benedire il giorno della festa patronale; ma ancora adesso c’è chi i primi di novembre si procura la chiave del camposanto e sale a rassettare, infiorare, illuminare e pregare richiamato dai colori agonizzanti e dalle foschie autunnali che combaciano con la morte assai più dei cieli azzurri dell’estate. A breve qualcuno, arrivando da Mosceta o da Puntato o salendo da Isola, raschierà le lapidi ed estirperà l’erba dalle zolle, nel solco di una devozione a lari familiari mai conosciuti di persona. Un’unica tomba, su cui rosseggiano tre coccinelle di sasso, porta la data del primo decennio del Duemila, vi riposa Clemente Bazzichi, il Clemè, che volle qui l’ultima sua dimora. Infine, prima di chiudere il cancello col catenaccio, merita attenzione la lapide di Emma Babboni la cui dolorosa vicenda, grazie ai versi di don Cosimo, è nota a tutta la Versilia e ben oltre. Emma lasciò questa terra il 16 luglio 1905, a soli 29 anni di età. Sul marmo sta scritto che la madre e la sorella chiedono una prece per la sua anima. Poche parole asciutte e nessun riferimento al dramma della Fragolaia, questo il nome che meritò la raccoglitrice, un nome che dà il titolo alla ballata che, di strofa in strofa, narra il suo amaro destino di maritata per forza. Emma fu infatti costretta dalla madre a lasciare, perché povero, l’amato fidanzato e ad andare sposa a un agiato vedovo. Dopo aver messo al mondo due figli morì e ritornò al Colle in una bara. Saranno i versi di don Cosimo a fare giustizia della ingiustizia patita. Ed è mormorandoli a fior di labbra che, passo dopo passo, ci allontaniamo dal camposanto e dal paese.

E tu cucù che sei re dei cantanti/ e più di tutti sei sicuro in volo, / deh, percorri i paesi tutti quanti, / che puoi trovar dall’uno all’altro polo;/ a tutti manifesta gli strazianti/ dolor ch’io soffro e per amore io sola/ mi trovo nella tomba avanti sera; dì che nessun m’aspetti a primavera.

Quando l’estate la cicala canta/ su per i pioppi tiengli compagnia,/ dì che la Fragolaia a Pietrasanta mai più tornerà come venia./ E poi vola di pianta in pianta/ infine a Massa: giunta che tu sia alla Martana Porta, a tutti dì: la Fragolaia è morta.