Cultura & Società

Via le mascherine, tornano i volti: senza relazioni non siamo niente

Tornino i volti chiedeva, nel titolo di un suo libro di trent’anni fa, don Italo Mancini, famoso filosofo e teologo italiano. Ovviamente Mancini non alludeva alla fine della pandemia: anche se, nel libro, s’interrogava proprio sul futuro della terra. In ogni caso i volti, ora, sono finalmente tornati. Almeno all’esterno, e quando non ci sono assembramenti, l’uso della mascherina non è più prescritto. E dunque, anche tra sconosciuti, possiamo di nuovo guardarci in faccia.Non è cosa da poco. I nostri comportamenti sono stati infatti modificati nel profondo dalla paura del contagio. Spesso, ad esempio, non riusciamo a riconoscere neppure gli amici, perché ci vengono incontro mascherati. Quasi mai, poi, ci azzardiamo a porgere la mano per presentarci, e chi lo fa è guardato con sospetto. La distanza sembra dover essere mantenuta a ogni costo.Tutto questo è attuato, a volte, in forme esagerate. Che senso ha tenere addosso la mascherina o stare a distanza quando sappiamo che il nostro interlocutore è vaccinato con due dosi, esattamente come noi? Che senso ha sostituire la stretta di mano con il tocco del gomito, quando tenere le braccia tese consente un distanziamento doppio rispetto al contatto gomito a gomito? Senza contare che, a ben vedere, una gomitata è sempre un atto ostile, o quanto meno allusivo.Eppure molte delle restrizioni che giustamente abbiamo imparato ad adottare vengono conservate anche ora che stiamo uscendo dall’emergenza. Certo: c’è la paura delle varianti. Certo: c’è il fatto che molti, ancora, non sono stati vaccinati, oppure non vogliono farlo. Ma i dati scientifici dicono che i vaccini sono efficaci per evitare, anche nel caso delle varianti, gli esiti più disastrosi della malattia. E si spera che prima o poi lo capiranno tutti.Di fronte alla rigidità di certi atteggiamenti vediamo però, in parallelo, una forte tendenza ad abbandonare ogni precauzione. Soprattutto lo vediamo nella ripresa delle relazioni sociali. Si tratta di una reazione comprensibile. La manifestano i nostri ragazzi, che forse sono stati i più colpiti, a livello psicologico, dai periodi di lockdown. La mostrano anche gli adulti, che hanno visto sconvolte le modalità del lavoro e la fruizione del tempo libero. E a nessuno di noi è bastato, per mantenere relazioni e amicizie vere, collegarci a una piattaforma o usare un Social network.Ecco perché i luoghi di ritrovo si riempiono nuovamente. Ecco perché le persone intervistate in TV non fanno altro che ripetere che sono felici di andare a fare shopping, di mangiarsi una pizza, di uscire con gli amici. Ecco perché tanti si sono accalcati a vedere i campionati europei di calcio.Anche in questi casi il pericolo è quello di esagerare: come se la qualità della nostra vita consistesse nell’andare a bere uno spritz. Ma emerge anche una consapevolezza. È la consapevolezza che noi, senza le nostre relazioni, non siamo nulla. E che le relazioni in carne e ossa non possono essere sostituite, per nessuna delle nostre attività, da un collegamento a distanza.Ho parlato di due atteggiamenti estremi: quello di chi continua a comportarsi come se la pandemia non si sia affatto evoluta e non sia, almeno in parte, governata e governabile attraverso i vaccini, e quello di chi non vuole pensarci più. Si tratta di atteggiamenti che si contrappongono nettamente in un’epoca, come la nostra, che è appunto un’epoca di estremizzazioni. Ma sono entrambi sbagliati.Se dunque c’è da imparare qualcosa da quest’esperienza, e se vogliamo ripartire nel modo migliore, dobbiamo agire con buon senso. Dobbiamo mettere in opera un equilibrio prudente e ragionevole tra la cautela di fronte a pericoli tutt’altro che superati e la necessità di riprendere in mano le nostre vite. Altrimenti faremo di nuovo del male: a noi stessi e agli altri.