Cultura & Società
Prato, l’«occhio» della chiesa di San Francesco non è di scuola robbiana ma è opera di Donatello
L’inedita attribuzione è contenuta nel libro fresco di stampa dedicato al restauro dell’opera, inserito all’interno del più ampio progetto dei lavori di ristrutturazione e recupero che stanno riguardando l’intero complesso dell’ex convento, prima francescano, poi carmelitano e oggi collegato alla parrocchia di Santa Maria delle Carceri.
Il volume «Le stimmate di San Francesco. Una scultura riscoperta nella chiesa di San Francesco a Prato», edito da Polistampa, e curato da Lia Brunori insieme a Francesco Marchese, coordinatore del progetto di restauro per conto della parrocchia, è stato presentato questa mattina alla presenza del vescovo Giovanni Nerbini, del sindaco Matteo Biffoni e dell’amministratore parrocchiale mons. Carlo Stancari.
Fino a oggi questo manufatto era associato alla scuola robbiana: nel 2013 lo studioso Andrea De Marchi, in occasione della mostra «Officina pratese», lo aveva attribuito a Andrea Della Robbia e in quella occasione aveva anche lanciato un appello, poi raccolto da Tomaso Montanari, affinché venisse salvato dal degrado.
Adesso, grazie ai lavori di restauro sono state compiute delle nuove analisi e il rilievo in stucco è stato osservato da vicino, come forse non era mai stato fatto prima. «Nonostante sia da circa sei secoli sotto gli occhi di tutti, questo rilievo rappresenta una delle opere meno conosciute dell’intero patrimonio artistico della città», scrive Brunori. Così, guardando i dettagli, specialmente gli elementi prospettici e la particolare tecnica realizzativa, la funzionaria delle Belle Arti propone questa nuovissima attribuzione. Come detto l’intervento ha dato modo di apprezzare l’accuratissima e spettacolare elaborazione dell’altorilievo nel quale è stato rappresentato il momento in cui San Francesco, ritirato sul monte della Verna in appartata meditazione, riceve la visione del serafino mistico che in forma di Cristo Crocifisso gli donò le stimmate. Alle spalle del Santo c’è uno spuntone roccioso, si vedono degli alberi di conifere. Ai piedi di un albero, come inglobato nella roccia, si trova Frate Leone, sulla destra è raffigurata una chiesa, identificata con il convento della Verna.
Queste soluzioni tecniche si porrebbero in sintonia con quanto si stava facendo a Firenze dagli anni Venti del XV secolo grazie al genio di Brunelleschi e Donatello e in pittura da Masaccio. «Il rilievo pratese recepisce a pieno questa lezione con assoluta genialità inventiva e freschezza di ispirazione. Direttrici luminose e linee prospettiche costruiscono la scena proiettandola in uno spazio ormai pienamente soggetto alle leggi dell’uomo secondo le nuove elaborazioni brunelleschiane». L’utilizzo poi di una tecnica particolare come lo stucco porterebbe a escludere il riferimento robbiano, nel libro infatti ci si chiede: perché Andrea campione dell’uso della terracotta invetriata avrebbe dovuto abbandonare questa tipologia di indiscusso successo per fare un’opera così esposta alle intemperie? In età giovanile Donatello ha esplorato certamente l’uso della terracotta ma ha anche lavorato spesso con lo stucco. Ne parla Vasari, che lo ricorda «Pratico negli stucchi», e poi di questa tecnica, della quale era «unico nella Firenze del tempo», restano testimonianza le decorazioni della sacrestia vecchia di San Lorenzo. Analoga è la malta composta da aggregato sabbioso, calce idraulica e abbondante presenza di ossidi e idrossidi di ferro di colore giallo rossastro, usati per ottenere stucco pigmentato.
Simile all’arte donatelliana anche l’uso degli strumenti utilizzati: sono state rinvenute tracce lasciate da spatole, stecche e punte metalliche. «In particolare la lavorazione dell’albero accanto al campanile sembra realizzata con la stessa tecnica a intaglio della capigliatura della figura col forcone sulla sinistra nel tondo del Martirio di San Giovanni nella sacrestia vecchia di San Lorenzo a Firenze», afferma Brunori. Le similitudine sono molte altre ancora e vengono descritte e mostrate nel libro anche grazie a confronti fotografici tra alcuni particolari contenuti nell’«occhio» di San Francesco con opere di Donatello.
Nel libro si affronta anche la questione della datazione dell’opera. Pur mancando documenti ufficiali che inquadrano temporalmente questo rilievo, è stata accertata l’esistenza di un testamento del 1417 di Ser Torello di Niccolò Torelli, illustre notaio pratese, che lascia la cospicua somma di cento fiorini d’oro per completare il frontespizio della chiesa, raccomandando che il lavoro fosse completato entro cinque anni, cioè il 1422.
Lia Brunori conclude il suo saggio sottolineando che la paternità dell’opera a Donatello, pur se suffragata da vari riscontri, si tratta solo di una proposta, bisognosa di altri documenti che possano «diradare i molti interrogativi che accompagnano la lettura del rilievo». Resta comunque il fatto, e lo evidenziano Brunori e Marchese, che questo splendido stucco quattrocentesco che sembrava danneggiato in modo irreparabile è stato restituito al ricco patrimonio artistico della città.
La chiesa di San Francesco a Prato. Nel 1212, secondo la tradizione, San Francesco di Assisi arrivò a Prato e fondò una piccola comunità di frati, che aderenti a quel propositum vitae che fu la primitiva regola francescana, diede origine al convento e alla chiesa che oggi conosciamo. Il 24 luglio 1228, a soli otto giorni dalla canonizzazione del poverello di Assisi venne fondata la chiesa di San Francesco a Prato, che così risulta essere la prima dopo la grande basilica di Assisi, avviata il 17 luglio 1228.