Negli anni, a furia di modifiche, sistemazioni, aggiunte e coperture, ha cercato di diventare un teatro vero, con tanti limiti, si sa, fra cui quello di un’acustica non ottimale, ma nel tempo corretta anche con nuove tecnologie poi diventate presto obsolete.Gli mancava quasi tutto, per poter essere efficiente: testimonianza plastica la «baracca» di lamiera sul retro del palcoscenico, in via Solferino, provvisoria e come sempre in Italia diventata pluridecennale presenza ingombrante nell’elegante strada residenziale, horribile visu ma indispensabile allo stivaggio e spostamento degli elementi scenici che non avevano altra possibilità di allocazione nei paraggi degli spettacoli.Questo lo vedevano tutti, ma solo chi ha vissuto per anni in quel teatro – dire «lavorato» sarebbe riduttivo, in un teatro si vive, non ci sono mezze misure – sa che tremendo accrocchio di edifici contigui variamente collegati fra loro era diventato per poter ospitare i servizi e uffici connessi alla produzione. E nemmeno tutti: i laboratori di scenografia alle Cascine, i magazzini di scene e costumi prima a Prato, poi all’ex Longinotti all’Osmannoro, poi alla Manifattura Tabacchi, poi in tristi container esposti alle intemperie a Novoli …E dentro c’era la storia dell’arte musicale rappresentata, un tempo fonte anche di introiti grazie ai noleggi. Ma, si diceva, tanto è materiale caduco, transitorio, si fa prima a rifarlo (sempre che ci sia ancora chi sia in grado di riprodurlo, un mestiere artigianale e artistico che da tempo sta scomparendo).Del resto cosa c’è di più fragile di un teatro, un luogo fatto per ospitare spettacoli che scompaiono appena si chiude il sipario? Possiamo fissarli con riprese video, registrazioni e tutto quello che l’evoluzione della riproduzione ci offre e serberà in futuro, l’aveva previsto Benjamin negli Anni Trenta del secolo scorso (!), e nemmeno poteva ipotizzare cosa abbiamo a disposizione oggi. Ma l’emozione dal vivo non la riproduci. Quante volte dopo una dozzina di ore in ufficio, scendendo in sala per la «prima», mi sono commossa pensando «ho lavorato per questo, ne valeva la pena!». Tornando alla fragilità dei teatri: da sempre sono stati distrutti da calamità, bruciati dolosamente o meno – e talvolta risorti, come la mia amatissima Fenice a Venezia. Però oggi, vedere sventrato «il Comunale», biciclettando e sbirciando dalle reti di cantiere, e constatarne il progressivo, voluto smantellamento, è qualcosa che fa tanto male; dopo alcune prime foto, avevo scritto in privato: COSì MUORE UN TEATRO.A questo enorme bestione, dilaniato a picconate, verrebbe voglia di fare una carezza per accompagnarlo in questo tragico trapasso, che non porterà a nuova vita ma a un ennesimo resort in una zona in cui certo non mancano le strutture turistiche; e vedremo se poi non mancheranno i fruitori.Nota a margine: ma se era inadeguato per le moderne esigenze sceniche, non poteva essere ancora utilizzato come auditorium – aveva più di duemila posti, e consideriamo anche il più piccolo ma funzionale Ridotto – per concerti di tanti tipi (e nel ricordarne di memorabili, cito a caso Battiato, Ute Lemper, Palast Orchester), congressi e altro, con comodo hotel annesso?Sì, aveva limiti strutturali tremendi. Penso ai camerini angustissimi e senza servizi, scomodi per i poveri artisti con costumi ingombranti; ma in quello «del direttore», in un sottoscala (!) ma adiacente al palcoscenico, hanno studiato, riposato e ricevuto tributi i più straordinari Maestri del podio, da Muti a Ozawa, da Abbado a Bartoletti, e più a lungo Mehta che per decenni si è esposto in ogni occasione per avere a Firenze un nuovo teatro; e rimembro le gimkane per passare da un piano e da un ufficio all’altro, ai cunicoli degni del Conte di Montecristo e a tutti quegli ostacoli fisici che tentavano di impedire decenti riprese fotovideo, proiezioni, sopratitoli (in cui il Maggio è stato il primo in Italia), che però invece riuscivamo a realizzare comunque, con un po’ di fatica in più che altrove, come del resto per tutto ciò che si vuole fare a Firenze.Però, come succede alle vecchie coppie longeve, alla fine si amano perfino i difetti, o almeno ci si passa oltre.Ora il teatro nuovo c’è e funziona, ma ho la sensazione che fatichi a prendere nel cuore dei fiorentini, e non solo, il posto del suo predecessore e a sostituirlo.Già la prima volta che, dieci anni fa, ho dovuto allontanarmene, «il Comunale» mi è mancato come se mi avessero strappato un organo o un arto, e ho faticato a ricalibrare le mie giornate senza di Lui, che mi ha dettato i ritmi di vita quotidiani per una ventina d’anni; ora che proprio vedo che non esiste più mi sembra che una parte di me si sbricioli con Lui, e so di non essere sola in questa amara percezione: ne parlo con tanti colleghi dei più diversi reparti, perché il teatro è come un organismo biologico, c’è bisogno di tutte le più diverse professionalità ogni giorno per mandare in scena una produzione.«Il Comunale» non aveva una presenza imponente a Firenze, né dal punto di vista architettonico né logistico: tutti i teatri importanti sono riconoscibili nelle rispettive città, a volte ne danno addirittura la connotazione, e hanno una bella piazza davanti, sono oggetti di ammirazione e di foto ricordo (anche quando non c’erano i selfie): lui no. Non aveva nemmeno un nome blasonato o glamour, e tanto mi sono spesa per cercare di renderlo più accattivante, internazionale, identificabile con il suo prestigioso festival… invano, temo.Però, siccome non siamo qui a farne la storia – ricordando ancora una volta i miti come Callas/Ronconi,/Kleiber/Dodin/Fura, ma anche etoiles sublimi come Nureyev, Baryshnikov e la cara Carla Fracci, e coreografi come Polyakov (che riposa proprio a Firenze, a ottobre il 25° della scomparsa) -, meglio ricostruita ed elencata negli annali pubblicati dallo stesso «Teatro del Maggio Musicale Fiorentino» e in rete, ma per ricordare quel povero rudere sbranato – passateci se potete -, come non pensare a salutarlo con «Ora e per sempre addio» (da Otello), oppure «Addio, (s)fiorito asil» (Butterfly)?Ma anche con «Sei nell’anima, e lì ti lascio per sempre» (Gianna Nannini): perché in Corso Italia, a Firenze, un Teatro glorioso non c’è più.