Cultura & Società

5 luglio 1951: settant’anni fa Giorgio La Pira diventava sindaco di Firenze

La Pira non era nuovo alla politica: aveva già scoperto che «l’impegno politico – cioè l’impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della società in tutti i suoi ordinamenti a cominciare dall’economico – è un impegno di umanità e di santità». Il suo sogno, fin dal momento della sua conversione al cristianesimo, era quello di vivere una vita di preghiera e di studio: si era già accorto però che il suo «piano» di santificazione, in quell’Italia da ricostruire sulle macerie del fascismo e della guerra, passava attraverso l’impegno sociale. «Bisogna trasformarla la società!».Un impegno che lo aveva portato, nell’Assemblea costituente, a dare un contributo determinante nella stesura dei «principi fondamentali» della nostra Costituzione. Poi i primi anni al Governo, e anche le prime disillusioni. Nel 1951, La Pira lascia Roma per Firenze. Da tempo si parlava delle elezioni comunali, e della necessità di trovare un candidato cattolico amato dalla gente, che avesse qualche possibilità di strappare la città al Partito comunista. Non c’erano dubbi: l’unico nome possibile era quello di La Pira. A convicerlo contribuirono sicuramente il cardinale Elia Dalla Costa e don Giulio Facibeni, i suoi punti di riferimento spirituali. La scelta si dimostrò giusta: La Dc, di cui era capolista, ottenne la maggioranza e le sue preferenze personali furono oltre 19 mila. L’abbandono della scena politica nazionale fu sofferto: e quando, l’anno successivo, fu approvata la legge che stabilisce l’incompatibilità fra il mandato parlamentare e la funzione di sindaco, al presidente della Camera Giovanni Gronchi che lo sollecitava a scegliere tra le due cariche rispose con un lapidario telegramma: «Scelgo Firenze, perla del mondo».Messo ai margini dalla politica romana, La Pira trovò a Firenze un terreno più adatto in cui tradurre in pratica la sua idea di politica. Un’esperienza amministrativa ricca e singolare, che il Papa santo Giovanni Paolo II ha voluto additare come modello a tutti i sindaci d’Italia: «Quella di La Pira – affermava nel 2004 in un’udienza all’Anci – fu una straordinaria esperienza di uomo politico e di credente, capace di unire la contemplazione e la preghiera all’attività sociale e amministrativa, con una predilezione per i poveri e i sofferenti. Carissimi sindaci, possa questa sua luminosa testimonianza ispirare le vostre scelte e azioni quotidiane!».Cosa c’è dunque, di tanto straordinario, nel modo in cui La Pira ha svolto il suo compito di sindaco? Per cercare di capirlo, si può partire proprio da quel 5 luglio 1951. Il racconto lo ha fatto alcuni anni fa su Toscana Oggi un altro dei protagonisti del mondo cattolico fiorentino di quegli anni, Raffaello Torricelli, scomparso nel 2005. «Ricordo bene quella seduta del consiglio Comunale» scriveva. In giunta c’erano due liberali, due repubblicani e un socialdemocratico, a seguito dell’apparentamento elettorale che ci aveva consentito la vittoria. Gli altre sei assessori erano democristiani: tra questi, ricorda Torricelli, «c’era anche Piero Bargellini, sceso dalla gelosa cittadella dei letterati per lavorare con La Pira nei grandi anni di Firenze». La Pira portò in Palazzo Vecchio anche un gruppo di collaboratori fidati: tra gli altri Fioretta Mazzei, Pino Arpioni che poi fonderà l’Opera per la Gioventù, Antinesca Tilli, la segretaria che lo seguirà per tutta la vita battendo a macchina migliaia di lettere.Al momento del suo insediamento, il nuovo sindaco si presentò con le parole di san Francesco: «Pax et bonum», pace e bene, prima di pronunciare un discorso che resta tra i suoi testi più belli. «Gli obiettivi della Giunta – afferma – sono fondamentalmente tre. Il primo si fonda sulla pagina più bella e umana del Vangelo: risolvere i bisogni più urgenti degli umili». L’altro obiettivo è lo sviluppo industriale, commerciale, finanziario della città: «Noi porremo il massimo sforzo e il massimo interesse per potenziare tutte le attività cittadine». Ma il discorso prosegue: «C’è poi un terzo obiettivo, che è forse il più importante. Firenze rappresenta nel mondo qualche cosa di unico. Ora, qual è il bisogno fondamentale del nostro tempo, dopo quelli che vi ho accennato? Dare allo spirito dell’uomo quiete, poesia, bellezza! Tutti quelli che, da qualunque parte del mondo, vengono a Firenze trovano qui la quiete: la trovano nell’aria, nelle linee architettoniche degli edifici, nei volti degli uomini. Firenze ha nel mondo il grande compito di integrare con i suoi valori contemplativi l’attuale grande civiltà meccanica e dinamica. I nostri grandi scrittori, poeti, artisti hanno assegnato a Firenze questo compito nel mondo e noi faremo il possibile per far diventare la nostra città sempre più il centro dei valori universali».Gli anni che seguirono, racconta Torricelli, videro «scelte rischiose ed eccezionali per diminuire la disoccupazione, per fronteggiare l’emergenza sfratti, per costruire tremila nuovi alloggi, per intervenire concretamente nella soluzione di difficili crisi aziendali dove il fattore “uomo” doveva avere la medesima attenzione di quello economico». Ma furono anche gli anni dei convegni internazionali, dei colloqui mediterannei che portarono a Firenze sindaci, re e capi di stato. «Noi cattolici – dice Torricelli – speravamo anche che con La Pira la voce di Firenze si sarebbe fatta sentire nella ricostruzione morale della nostra Italia da poco uscita dal disastro di una guerra. Non siamo stati delusi».La Pira resterà alla guida dell’amministrazione fiorentina per un arco di tempo di 14 anni, fino al 1965: un percorso costellato di successi e difficoltà, in cui La Pira trovò molti sostenitori ma anche molti avversari. Il nome di «sindaco santo» oggi rischia di diventare una realtà: Giorgio La Pira è già «venerabile» e il riconoscimento di un miracolo a lui attribuito potrebbe consetire di proclamarlo «beato». All’epoca però era un soprannome usato per prenderlo in giro, da parte di chi sosteneva che una persona così, che viveva in convento e donava i suoi averi ai poveri, non fosse adatto alla vita politica. La Nazione, il principale quotidiano cittadino, lo accusava di occuparsi più della pace nel mondo che del bene della città, di preferire la diplomazia internazionale alla necessità di sostituire le lampadine nei lampioni. La Pira rispose nel suo ultimo discorso da sindaco al consiglio comunale, nel 1965. «Non ascoltate, signori consiglieri, coloro che fanno una critica superficiale intorno a questa strutturazione duplice del mandato fiorentino: che dicono in modo tanto superficiale: bisogna interessarsi ‘delle lampadine’ e non della pace! Costoro ignorano, signori consiglieri, una cosa che è essenziale per il destino, anche finanziario, produttivo, economico di Firenze: ignorano, cioè, che solo aprendo le porte esterne della città è possibile aprire – e ampiamente – quelle interne: perché attraverso le porte esterne aperte ai popoli di tutto il mondo (come è nel destino stesso di Firenze) passano non solo i grandi ideali della pace, della cultura, della spiritualità, della bellezza, della speranza: ma passano altresì i ‘valori visibili delle nazioni’: cioè i grandi flussi finanziari, economici, turistici, commerciali, che vengono da ogni angolo della terra e che piantano saldamente, nel suolo di Firenze, un sistema scientifico, tecnico e produttivo al livello del nostro tempo e capace di assicurare al popolo fiorentino, col lavoro, la sua sicurezza e dignità sociale ed economica».Lavorare per la pace, dice La Pira, significa fare allo stesso tempo il bene della città. Parole da tenere bene a mente, proprio mentre Firenze si prepara a ospitare, nel febbraio del 2022, il duplice incontro dei vescovi del Mediterraneo e dei sindaci delle città che si affacciano sul «mare nostrum».