Un libro che parte da un fatto di cronaca avvenuto nel 2011 in provincia di Grosseto. Un evento tragico, in cui il male entra nella vita di due famiglie provocando perdite irreparabili. Ma anche la storia di due donne che sono riuscite a separare l’abisso di dolore che le divideva, ad andare oltre l’odio, il rancore, la vergogna per trovare un messaggio di riconciliazione da portare nel mondo.Lucia Aterini si è imbattuta in questa vicenda come giornalista del Tirreno, e ha continuato a seguirla quando da notizia di «nera» si è dilatata e trasformata. E adesso ha raccontato tutto questo in un libro: La goccia che apre le ombre, pubblicato dalla Libreria Editrice Fiorentina (pagine 156, euro 16).Come è nata l’idea del libro?«Potremmo dire per una casualità della vita, anche se io non credo nella casualità. Mi sono trovata, per lavoro, davanti a un fatto orribile, due carabinieri gravemente feriti, di cui uno poi sarebbe morto. A commettere questo crimine orrendo era stato, dopo essere stato fermato mentre era al volante, un ragazzo di cui emergeva però un ritratto completamente diverso: veniva descritto come intelligente, bravo a scuola, sempre disponibile con gli amici. Tutto questo mi aveva colpito e incuriosito. Poi qualche anno dopo mi sono ritrovata a seguire, sempre come giornalista, un incontro organizzato dalla parrocchia di Montelupo in cui era previsto l’intervento delle due donne entrambe, a modo loro, colpite da questa vicenda: la mamma del ragazzo, Irene, e la moglie del carabiniere ucciso, Claudia, anche lei madre di un ragazzo adolescente rimasto orfano».Cosa ti ha colpito della loro storia?«Ascoltare la loro testimonianza fu travolgente. Il racconto dei dolori che hanno patito, la forza che hanno saputo tirare fuori, il coraggio con cui si sono avvicinate, la fede in Dio che le ha avvicinate, le iniziative che sono riuscite a concretizzare: tutto questo è qualcosa di grande, che ho sentito il bisogno di raccontare».Nel libro racconti il modo in cui Claudia e Irene sono venute in contatto, e anche le difficoltà che hanno avuto.«Non tutti hanno condiviso la loro scelta o compreso i loro gesti. Io ho cercato di lasciare che fossero loro a raccontare. Irene ad esempio spiega quanto è stato difficile per lei scrivere a Claudia la lettera che sarebbe stata il seme da cui poi è nato il loro incontro. Claudia racconta la sensazione di freddo che ha provato in tribunale quando il ragazzo che aveva ucciso suo marito fu condannato all’ergastolo: da lì è nato il desiderio di aprire un percorso di riconciliazione, l’incontro che hanno avuto nella comunità di don Mazzi, dove lui stava scontando la sua pena, il pianto che hanno fatto insieme».Quella condanna all’ergastolo – poi ridotta a vent’anni di carcere – poteva mettere fine al desiderio di veder punito il colpevole. Invece è stata l’inizio di un altro cammino.«Claudia e Irene hanno iniziato a portare in giro il loro messaggio, che non è tanto un messaggio di perdono – il perdono compete a Dio, dice Claudia – quanto la proposta di una visione di giustizia che si pone come obiettivo non la punizione o la vendetta, ma il superamento del male, il recupero delle persone. Non si tratta di “buonismo”, di un semplice “vogliamoci bene” che cancella ogni responsabilità: si parla della ricerca di un punto di incontro tra la vittima e il responsabile del reato, con il coinvolgimento di un mediatore».È quella che si chiama «giustizia riparativa».«Esatto. Che non significa nascondere, negare o cancellare quello che è avvenuto. Seguire la storia di Claudia e Irene mi ha portato a incontrare altre storie simili, in cui questo percorso ha dato i suoi frutti».Sono le altre storie che racconti nel libro, storie di madri e di figlie, come Agnese Moro, storie di religiosi che si battono per questa causa, come il gesuita padre Francesco Occhetta. Pensi che ci sia spazio, in una società sempre più dominata dall’odio e dal rancore, per queste forme di giustizia?«Non è facile. Per questo trovo molto bello che due donne come Irene e Claudia, che hanno i loro pesi da portare, trovino il modo di continuare a proporre questo messaggio. Hanno anche costituito una associazione, “Amicainoabele”, per promuovere le loro iniziative che riguardano anche il ricollocamento lavorativo degli ex detenuti e il sostegno psicologico e legale gratuito. Avevo iniziato a lavorare a un articolo, poi mi sono accorta che le cose da dire erano tante e che ci voleva un libro intero per raccontare le storie di chi come loro ha incontrato il Male, è sprofondato nel dolore e nella disperazione e ha saputo risalire portandosi dietro non un carico di odio, ma il desiderio di aprire strade nuove».