Cultura & Società
Settimanali diocesani. Crimi: «Capire quanto riescano effettivamente a dare voce ai territori». Investire sul digitale
«È importante che quando un lettore acquista un giornale sappia chi ne detiene la proprietà (oggi molto spesso nascosta dietro sigle e nomi ai più sconosciuti) per comprendere se la comunicazione che veicola è condizionata o meno». Quella a «La Voce del Popolo», il settimanale della diocesi di Brescia, è stata la prima visita del sen. Vito Crimi (M5S), a pochi giorni dalla nomina a sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega per l’editoria, a un’espressione di quelle realtà editoriali che fanno riferimento alla Fisc (Federazione italiana settimanale cattolici) che, con la legge 198/2016, avevano finalmente visto riconosciuti quei principi relativi al pluralismo dell’informazione per troppo tempo rimasti prerogativa quasi esclusiva di grandi gruppi editoriali.
«Ancora devo conoscere sino in fondo la realtà della stampa locale per comprendere quanto questa sia realmente efficace nel suo sforzo di raccontare i territori di riferimento – ha affermato il sottosegretario -. Mi interessa capire quanto riesca effettivamente a dare voce, a parti di territori e a fette di popolazione normalmente escluse dal circuito comunicativo». Anche quando si parla di stampa locale, per Crimi, è importante sapere chi sia l’editore e il finanziatore della stessa, perché non ci siano anche in questo campo particolari condizionamenti. «Una delle cose che spero di poter realizzare – ha affermato al proposito – è di introdurre anche in questo settore il massimo della trasparenza: permettere ai lettori di sapere chi sono i finanziatori, anche attraverso la raccolta della pubblicità, è un dato importante perché alla lunga consente loro anche di conoscere il racconto che il giornale fa della realtà, la linea editoriale che adotta. Anche se non è il caso dei settimanali diocesani e delle testate come ‘Voce’, è importante che quando un lettore acquista un giornale sappia chi ne detiene la proprietà (oggi molto spesso nascosta dietro sigle e nomi ai più sconosciuti) per comprendere se la comunicazione che veicola è condizionata o meno».
L’Italia è il Paese dei singoli territori e delle piccole comunità. Una stampa realmente a servizio di queste realtà quali caratteristiche dovrebbe avere, oltre a quella della trasparenza?
«Innanzitutto dovrebbe essere in grado di autosostenersi dal punto di vista economico. Ci sono tanti esempi di realtà nel campo dell’informazione locale che sono sostenute dalle comunità a cui fanno riferimento. Questo consentirebbe di superare la logica della dipendenza, più o meno manifesta, da chi sostiene economicamente la testata. Il rapporto diretto con una comunità che si riconosce in un giornale dà anche nuova forza allo stesso per un’informazione realmente libera».
La recente riforma della legge sull’editoria ha cercato di andare incontro alle richieste di norme che tutelassero a tutti gli effetti il pluralismo nel campo della comunicazione…
«Tante iniziative italiane hanno preso le mosse da intenti lodevoli e condivisibili, per poi trasformarsi negli anni in qualcosa di diverso e magari diametralmente opposto agli obiettivi per cui erano state pensate. Pensiamo alla legge sul finanziamento pubblico dei partiti concepita per rendere possibile anche alle forze meno rappresentativa la partecipazione alla vita politiche del Paese. Tutti sappiamo in cosa si è trasformata. Qualcosa del genere è successo anche con la legge per i finanziamenti pubblici all’editoria, una normativa che ha consentito a qualcuno di fare soldi con un meccanismo che va evitato. Per questo è necessario procedere con un lavoro di analisi e conoscenza della realtà esistente, per approfondire, distinguere e dotarsi il prima possibile di tutti gli strumenti in grado di verificare l’efficacia dei finanziamenti all’editoria. Non si tratta più di limitarsi ad erogare fondi alle aziende editoriali, occorre individuare tutti quegli strumenti per verificare come il prodotto editoriale realizzato abbia una sua efficacia. La domanda che occorre porsi è se un giornale distribuito a livello locale viene preso e gettato subito nel cestino o se veramente viene percepito come significativo strumento di informazione per il territorio. Oggi questa differenza non interessa, eppure è di capitale importanza. Quello che ancora devo capire e mettere a punto è il modo in cui si possa arrivare a questo tipo di verifica. Si tratta di una scommessa che voglio assumere, insieme a quella del digitale…».
Un’altra partita importante nel capitolo dei finanziamenti…
«Sì, indubbiamente! Il finanziamento che lo Stato oggi dovrebbe garantire, questa almeno è la mia idea, è quello a sostegno dell’avvio di prodotti editoriali digitali. In questo caso il sostegno potrebbe essere anche totale e coprire un certo numero di anni, a patto che il progetto presentato garantisca allo stesso di riuscire a camminare, dopo un certo periodo di tempo, con le proprie gambe, così da ridurre progressivamente la presenza dello Stato».
Quello del digitale, almeno in Italia, sembra un treno già passato e su cui solo in pochi sono stati in grado di salire, anche se molte diocesi italiane su questo piano hanno scommesso in modo determinante…
«Concordo che forse un primo treno è passato. Bisogna però prepararsi per essere pronti a salire sul secondo che dovesse arrivare. Per questo è necessario continuare a investire sul digitale, anche con incentivi, perché la stampa italiana possa cogliere occasioni che vanno facendosi sempre più ristrette. Certo, occorre trovare il modo di far comprendere che quello dell’informazione «servita» online è un servizio che costa e che per questo il lettore deve essere educato al fatto che un’informazione di qualità online va pagata. Torno a dire, però, che quella dell’informazione digitale è una scommessa che va assunta sin da subito, anche per far fronte a evidenti ritardi che già sono si sono accumulati».
Non c’è il rischio, però, che molti assumano questa scommessa del digitale perché «attratti» dal miraggio del risparmio e dei tagli sul fronte economico?
«Sì, il rischio c’è ed è evidente. Quando parlo di scommessa digitale della comunicazione e di contributi a nuove start up in questo settore penso, però, a iniziative che non vengano attuate soltanto perché costano meno o fanno risparmiare l’editore, ma a vere e propri progetti editoriali che mettano al primo posto la professionalità e l’efficacia della comunicazione».