Cultura & Società

Fu Ofelia l’ispiratrice dei «Canti Orfici»?

Perché Canti Orfici? Una domanda che negli anni tutti gli studiosi e gli appassionati della poetica di Dino Campana si sono fatti. A cominciare da Federico Ravagli, amico e studioso del poeta di Marradi, che scrisse come l’aggettivo «orfico», non fosse assolutamente chiaro. Molti individuano in Orfeo l’ispiratore del titolo del libro scritto da Campana nel 1914. Ma a onor del vero il nome del mitico cantore greco non compare in nessun componimento e nemmeno viene fatto alcun riferimento alle sue gesta. Anche nel manoscritto intitolato «Il più lungo giorno», testo consegnato a Soffici e Papini e perduto dai due scrittori fiorentini, Orfeo è assente. Per molti Campana si ispira al filosofo e poeta francese Edouard Shuré, rifacendosi al capitolo Orphée tratto dalla sua opera più nota Grandi iniziati.

L’enigma non è mai stato risolto, anche se in merito è stata prodotta una certa bibliografia, gli studi campaniani si sono essenzialmente concentrati sulla avventurosa vita del poeta, indubbiamente affascinante, sull’originale metrica dei componimenti quanto sulle forti suggestioni evocate nei versi. Forse proprio quest’ultima caratteristica della poetica di Campana è all’origine della scelta di chiamare «orfici», i canti contenuti nella sua prima e unica raccolta.A formulare una ipotesi, incamminandosi su questa strada, è Stefano Drei, professore di italiano e latino al liceo Torricelli di Faenza. Colui che sei anni fa dimostrò, fornendo adeguata documentazione, come quello ritratto nella famosa foto di classe, scattata proprio al Torricelli, non fosse un giovane Campana ma un certo Filippo Tramonti.

Drei è un vero e proprio investigatore letterario, sempre nello stesso anno, dopo aver smascherato «il falso», riuscì a ritrovare una autentica foto del poeta marradese, scattata nel 1912 nel corso di una escursione di gruppo al monte Falterona.

Questa volta il professore cerca di spiegare il riferimento a Orfeo e lo individua in Ofelia e in una piazza della città di Faenza. «Nessuno ha evidenziato l’assonanza tra il nome del cantore greco e il personaggio femminile di Amleto, che nell’opera compare ben quattro volte», spiega Drei. Nella prosa intitolata Faenza, Campana scrive: «Ofelia la mia ostessa è pallida e le lunghe ciglia le frangiano appena gli occhi: il suo viso è classico e insieme avventuroso». Drei è incuriosito da questa donna: «Per quale motivo le ostesse in generale farebbero venire in mente a Campana la promessa sposa di Amleto?».

Grazie ad alcune ricerche scopre che a Faenza esisteva veramente una ostessa con quei tratti somatici e si chiamava veramente Ofelia. Il professore rintraccia anche una lontana parente, Rosanna Ceccoli, che ricorda di aver sentito dalla propria madre: «Ofelia da giovane era bella, tanto che un famoso poeta la cantò». Ma che c’entra con l’orfismo? «Il locale in questione era l’osteria della mosca, oggi non più esistente, si trovava fino al 1938 in centro, in via Beccherie, strada di fronte a piazza del Popolo – dice Drei – un luogo che Campana cita in un’altra opera, nel Taccuinetto faentino».

Anche questa volta il professore lavora per deduzione, perché il poeta nel componimento non cita espressamente la piazza in questione. «Campana dice di essere seduto sotto una “loggia grande”, poi cita un caffè, una “piazza viva di archi potenti” e una “torre barocca”», spiega ancora Drei, «a questo punto un faentino non ha dubbi: l’autore dei Canti Orfici è seduto al caffè Orfeo». A fine Ottocento e nei primi del Novecento era un classico ritrovo di intellettuali, come le Giubbe Rosse a Firenze. Dunque nessun riferimento all’orfismo, culto iniziatico per pochi eletti, ma solo il frutto di una suggestione data da una donna, una osteria, una piazza e un caffè. «Campana nelle sue poesie tende sempre a mischiare elementi reali a quelli letterari o frutto della sua fantasia – conclude Drei – le immagini descritte possono nascere da percezioni, suoni o immagini della mente».Lo stesso Campana scriveva: «Ad ogni poesia fare un quadro». Era assolutamente unico nel coniugare parole e immagini, creando così un binomio straordinario. Due scritti ineditiCampana lo aveva detto a Carlo Pariani nel celebre «Vita non romanzata», la prima – e discussa – biografia del poeta, scritta dallo psichiatra che lo aveva in cura al manicomio di Castelpulci. «Nei primi interrogatori diede notizie del passato – scrive Pariani –, tacendo particolari stimati pericolosi. (…) Proseguivano vecchie trame per le quali partecipando a concorsi non riusciva e rimandavano i documenti senza spiegazioni».

Sappiamo che nel corso della sua vita Campana ha cercato spesso, invano, di normalizzare la sua esistenza, essenzialmente errabonda e dissociata, iscrivendosi all’università a Bologna e cercando un lavoro. Tentò addirittura, nel 1911, lui già ripetutamente rinchiuso in vari manicomi italiani e stranieri, di avere un posto come «alunno delegato di Pubblica Sicurezza». La domanda naturalmente venne respinta. Grazie al giovane critico Paolo Maccari, oggi sappiamo che il poeta marradese tentò un concorso, questa volta più consono alle sue attitudini. Sempre nello stesso anno – il 1911 – a 26 anni, Campana partecipa all’esame bandito dall’Istituto di Studi Superiori per l’abilitazione all’insegnamento della lingua francese. Presso la facoltà di Lettere di Firenze, l’Istituto infatti si trasforma poi in università, sono ancora conservati gli elaborati scritti dai candidati partecipanti agli esami di lingue straniere. Maccari scopre così due inediti di Campana, pubblicati, insieme ad un saggio sul ritrovamento e sull’analisi dei testi, nel libro Il poeta sotto esame (Passigli editori).

Per quella prova, fallita miseramente – ottiene 99 punti, lontanissimi dai 143 di una certa Marianna Carbone, ultima degli ammessi – Campana aveva dovuto produrre due composizioni, una in italiano e una in francese. La prima aveva per titolo, chiesto dalla commissione, A zonzo per Firenze. Una tematica consona al poeta. L’«odiosamata» città toscana è stata per Campana il luogo del gran rifiuto da parte di Soffici, Papini e degli intellettuali fiorentini del tempo. Il risultato non è un semplice «tema accademico», ma vi si possono trovare elementi che poi entreranno a far parte nella poetica dei «Canti Orfici», pubblicati tre anni più tardi. Importante anche lo scritto in francese, dal titolo Le repentir – il pentimento –, nel libro è pubblicato l’originale in lingua con traduzione a fronte. Qui Campana parla dei poeti amati, Baudelaire e Verlaine.