Cultura & Società
Gli intercalari: La personalità nascosta in quello che si ripete involontariamente
Capita di sentire qualcuno che nel parlare, oppure intervistato alla televisione, presentandosi ingessato simile a una mummia, bianco come il Convitato di Pietra, alla domanda: – Allora, com’è andata? Cos’è successo? risponde calmo: – E… niente… Lungo la panoramica siamo usciti di strada… E… niente… mi sono rotto una gamba, il polso, niente… due costole… il mio amico è in coma e… niente, quello che guidava è morto.
E dice niente? Chi sa se fosse successo qualcosa!
Bisogna dire che questo niente non significa più niente perché è diventato un semplice «intercalare», una parola, un’espressione che ha perso il significato, proprio diventando una pura emissione di voce, servendo a chi parla come appoggio del pensiero, posatoio della mente, un momento di respiro, una specie di gruccia per prendere fiato e tempo, evitando vuoti di silenzio e quindi d’imbarazzo, d’incertezza e d’esitazione. Più o meno tutti abbiamo qualche intercalare: alcuni semplici, inavvertibili, altri vistosi, altri ancora frequentissimi, pesanti se non fastidiosi. Coloro che parlano in pubblico ne soffrono particolarmente per la maggiore tensione che sopportano e il bisogno continuo di concentrazione per evitare errori. Nei versi del Giusti, L’intercalare di Gian Piero, si trova:
Il fenomeno poi si scatena quando non si sa che dire e si è costretti a farfugliare qualcosa a proposito o sproposito, senza pensare al collegamento con la frase in cui viene inserito. Così può essere un inciso (GiustappuntoIn definitivaDico bene? Vi pare? Non è vero?Santa pace! Mondo piccino! Cribbio!Essenzialmente, Naturalmente, Sicuramente, Sostanzialmente), espressioni che non modificano nulla su quanto viene detto (In buona sostanza, In definitiva), e altro.
L’oratore in questo caso usa funzionalmente l’intercalare per rallentare il tempo dell’esposizione e ritrovare la concentrazione, ovvero il filo logico perduti. L’abilità consente di sfruttare in mille modi i tempi morti riempiti da un eloquio automatico, convenzionale, mentre il cervello corre a riannodare i fili di un ordito mentale arruffato.
Sono comunque anche vezzi, ostentazioni tanto che in un ambiente divengono comuni, passano da uno all’altro e, soprattutto, si comunicano gerarchicamente dall’alto al basso e molti sono portati a far propri gl’intercalari del capo, per un processo di gregarismo, se non d’immedesimazione. Peraltro sono anche raccolti dal mondo familiare, dalla scuola, da amici, insegnanti. Nel periodo giovanile possono anche cambiare: uno si perde, uno s’acquista, poi si fissano e nelle persone mature, di più in quelle anziane, divengono indelebili. Anzi con la perdita di vivacità della memoria, quando il pensiero comincia ad aver bisogno di fermarsi per trovare parole, espressioni, dati sfuggenti, l’intercalare aumenta, raddoppia la sua frequenza passando da un vezzo, una caratteristica, un fastidio che intralcia la comunicazione.
Siccome spesso si collegano a un modo di pensare, a un tipo di persona a un indirizzo psicologico, a una visione della vita, vengono a far parte della personalità fino ad essere caratterizzanti al punto che gli autori li usano come elemento determinante per la tipizzazione d’un personaggio, soprattutto nel teatro. Non di rado diventano soprannomi che spesso a scuola si appiccicano indelebilmente ai professori che ne fanno uso e abuso e tutti abbiamo avuto qualche simpatico professor Santi Numi, Grossomodo, Giustappunto, Tarabaralla, Caromio, Daltronde.
La Pira mise in giro l’aggettivo congeniale e tutto per diversi anni si fece congeniale. Oggi piace molto Non più di tanto, e tutto tende a stare in questa misura estremamente evanescente, soprattutto se si dovesse acquistare qualcosa. Perché l’espressione ideale per l’intercalare è quella che significa meno possibile, potendo essere usata sempre e dappertutto. Molto gettonato è appunto l’Ok.
Se uno vuole scegliersi un intercalare dispone di una grande scelta e ne nascono continuamente di nuovi. Ma si nota facilmente che si tratta di operazioni involontarie: quelle espressioni che nascono con le mode con queste muoiono perché frutto della necessità innata dell’individuo ad acquisire espressioni rassicuranti, condivise, pregiate, capaci di identificarlo immediatamente come facente parte del gruppo, della tribù, del branco, della parte politica: sono quasi chiavi d’ingresso, parole d’ordine per accedere all’identificazione di membro della comunità e dare la necessaria professione di fede. Naturalmente allorché scompaiono ambienti, associazioni, partiti, conventicole, sette con i presupposti e le regole, scompaiono anche le parole d’ordine e gl’intercalari vengono dimenticati.
Ci sono formule alle quali è stata data una interpretazione possibile.
Non è vero? – Denota insicurezza e si usa per assicurarsi del consenso.
All’incirca – Esitazione, timore di fare affermazioni imprecise.
Ovverosia, ovvero detto, ovvero – Timore di non essere capiti o fraintesi.
Piaccia o non piaccia – Aggressività, sfida a un uditorio che si ritiene ostile.
In un certo senso, in certo qual modo – Attenuazione per timore di scontentare un uditore difficile che non condivide i nostro pensiero.
Sostanzialmente, praticamente, essenzialmente, naturalmente – Insieme ad altre espressioni non aggiungono niente al discorso per cui nascondono una forma di esitazione, difficoltà nell’esprimersi e servono per prendere tempo, riposare la mente, o acuire la concentrazione perduta.
E così via, e via dicendo, e compagnia bella, e compagnia a briscola, eccetera eccetera – Inclinazione a bluffare, mostrando d’avere argomenti e prove in numero tale che non vale la pena esprimerli.
Morale della favola – Desiderio di presentare la verità conclusiva come indiscutibile, cercando di presentarla come evidente e impedire ogni obiezione.
Per farla breve (corta), in poche parole – Paura di perdere l’attenzione di chi ascolta, avvertendo un sintomo di fastidio nell’uditorio e al tempo stesso desiderio di esternare a lungo un argomento ritenuto interessante.
Qui lo dico e qui lo nego, so io quello che dico, chi sa mi capisce, noi c’intendiamo – Ripreso dai venditori di mercato indica che colui che parla, per stupire l’uditorio, sta dicendo qualcosa di difficilmente credibile e ha bisogno di una certa intelligenza per essere compreso, in quanto si tratta di cose di cui non si può parlare apertamente.
Ok? – Intercalare fitto e quasi ossessivo di conio recente, in passato prossimo proprio di giovanissimi, ora esteso a varie età. Manifesta insicurezza nel proprio apparato mentale, conoscitivo, espressivo per cui tende a salvare via via come verità le parti successive del discorso, estorcendo il consenso dell’uditorio quasi frase per frase. Equivale in parte ai passati: Va bene? Non è vero? Ma l’espressione americana ha un tono più aggressivo di chi finge di disporre d’un retroterra linguistico, culturale, scientifico moderno e aggiornato.
Non c’è problema – Il problema c’è, ma nell’insicurezza psicologica.
Dico io, io domando e dico, siamo seri – Assunzione di una posizione di superiorità rispetto all’uditorio, atteggiamento da tecnico, da esperto, da uomo che si abbassa a parlare con chi non ha le sue qualità o conoscenze.
Giustappunto – Difficoltà nel trovare nella propria argomentazione una sequenza logica necessaria e timore che le proprie affermazioni siano enunciate senza una concatenazione soddisfacente, per cui la parola sottolinea continuamente il calzare dell’affermazione con quanto precede.
Diciamo – Preoccupazione continua di non trovare consenso, per affermazioni non condivise o azzardate e quindi tendenza costante a coinvolgere chi ascolta nell’enunciare la verità asserita
Nella narrativa e nel teatro è frequente la caratterizzazione di una figura con un intercalare. Manzoni mette in bocca a Don Abbondio la frase Per l’amor del cielo! fino dal II capitolo dei «Promessi sposi», quando il parroco è costretto a rivelare a Renzo il nome di Don Rodrigo. Bisogna notare la finezza del regista Mario Camerini che nella sua bella riduzione cinematografica (1941) ha mantenuto questa caratteristica del personaggio. Goldoni nei «Rusteghi» dota la mamma Margherita di un continuo: Figurarse! Il suo erede, Giacinto Gallina, caratterizza il nobil uomo Vidal con la frase: Megio de cussì non la poderia andar! che è ancora vagamente nei nostri orecchi. Si sente ripetere l’intercalare dell’ingegner Ribera in «Piccolo mondo antico»: Fate vobis, mentre non ha avuto successo quello di «Mastro Don Gesualdo».
Difficile da usarsi nella letteratura, in quanto l’uso non calibrato porta nel facile e nella macchietta, l’intercalare può essere divertente nella vita, creando talvolta dei comici inconvenienti. Ferdinando Martini racconta che quand’era ragazzo aveva come precettore un prete, don Antonio che aveva come intercalare Così, fra una cosa e l’altra. Un giorno gli venne da predicare che Dio, il sesto giorno, così, fra una cosa e l’altra creò, l’uomo.
Un frate, un certo padre Fiori, era il nostro divertimento di ragazzi la domenica quando infiorettava il sermone con dei S’intende bene, per cui venivano fuori frasi del tipo: Nostro Signore, s’intende bene Gesù Cristo… Oppure vengono fuori strane associazioni: L’altra sera a Dio piacendo l’ho preso e l’ho riempito di botte…
Si racconta d’un generale polacco, reduce delle campagne napoleoniche, che andava in giro tra i veterani italiani, nel loro spasso generale, cercando notizie del glorioso reparto, a suo tempo magnificato da tutti i militari nostrani che l’avevano sempre sulla bocca: il Corpo della Madonna.
Intercalari più comuni