Cultura & Società
Carlo Betocchi, l’umiltà di un grande poeta
La memoria del vecchio poeta s’era indebolita. È vero, in quegli anni capitava spesso di vederci, e lui sapeva quanto lo stimassi; ma la nostra amicizia era cominciata tardi, e io ignoravo quasi tutto della sua vita. Anche la mia ammirazione risaliva a una data piuttosto recente. Lo avevo scoperto tardi, a metà degli anni sessanta.
Questa copia del volume con tutte le sue poesie (da Realtà vince il sogno, alle Ultimissime, con un’appendice che comprende anche le Disperse, edite ed inedite) mi è particolarmente cara perché alla dedica dell’autore si accompagna quella di un amico scomparso, Piero Malvolti. Invece di spedirmela, Betocchi l’aveva consegnata a lui perché me la desse alla prima occasione; e l’amico Piero me la portò a Fiumetto. «Per reciproca consolazione», sta scritto nella dedica.
È parlando di Betocchi con lui che mi venne in mente di scrivere una breve biografia del comune amico. Niente di scientifico, per carità; e tanto meno di critico. A questo hanno già provveduto altri, ben più autorizzati, basti ricordare Bo, Macrì, Volpini, Baldacci. Essi non hanno aspettato quanto me, per scoprire la grandezza di Betocchi e la sua geniale originalità. Immaginavo di fare un libretto composto di episodi, aneddoti, ricordi, battute da pubblicare nel 1999, in occasione del centenario della nascita.
Il problema era trovare le notizie, possibilmente di prima mano, da persone che lo avessero conosciuto bene. Erano quasi tutte scomparse, a cominciare dalla figlia Silvia. Parlandone con i pochi superstiti, ben presto m’accorsi che della sua vita sapevano poco. Si spiega. Di sé, Betocchi non parlava volentieri. Anche uno come Malvolti che, specie negli ultimi dolorosi anni, gli era stato vicino come forse nessun altro, non aveva molto da dirmi. Piero lo ammirava e amava, oltreché come poeta, come uomo, per la sua profonda, sincera, cristiana umiltà; ma quanto a dati biografici m’era di poco aiuto.
Per esempio: il fiorentino Carlo Betocchi era nato a Torino. Così almeno sta scritto in alcune prefazioni. Perché chiedevo io, i suoi genitori, entrambi toscani, abitavano lassù? Nel ’17, Carlo si trovò coinvolto nella ritirata di Caporetto. Anche questo è un mistero. All’epoca infatti egli era appena diciottenne e tutti quelli della sua classe sarebbero andati al fronte più tardi, appena in tempo per schierarsi sul Piave. Perché lui si trovava già in zona? Non penso che fosse un volontario; non riesco proprio a vederlo in quei panni. Nel suo resoconto dedicato allo storico disastro egli non dà risposte a questa domanda. Diversamente da tutti gli altri memorialisti della Prima Guerra Mondiale (Comisso, Baldini, Soffici, Rossi, Bartolini, D’Amico etc.) Carlo era troppo modesto per dare un posto centrale, in una vicenda di tali proporzioni, al soldato Betocchi. Ed era poi un semplice soldato o un giovanissimo ufficiale?
Quale che ei fosse, quel militare così poco protagonista, nel dopoguerra, finì Dio sa come in Libia. Era un momento grave per la nostra ex colonia. I beduini in rivolta, gli italiani mezzo assediati nelle città costiere. Un gran pasticcio. Da Carlo ne sentii parlare di sfuggita solo una volta, mentre si era a pranzo alle Cave di Majano insieme a Piero, Luzi, don Barsotti, Panenti, Parronchi. Ridacchiava. A giudicare dal suo viso doveva essere stata un’esperienza non priva di lati comici.
E dopo la Libia, eccolo finalmente a Firenze, la sua città, come Genova lo è per Montale, Trieste per Saba, Livorno per Caproni. Geometra al Genio civile, Carlo andava in giro nella provincia a fare strade, ponti, argini. Intanto gli era nato l’amore per la letteratura, aveva scoperto Rimbaud, s’era messo ad armeggiare con i versi. Passano però almeno dieci anni prima che fuori di Firenze si senta parlare di lui, poeta vicino al Frontespizio e poi agli ermetici. Il suo primo libro edito da Vallecchi, dal titolo emblematico, Realtà vince il sogno, è del ’34. Anche nel secondo dopoguerra, Betocchi, pur avendo pubblicato altre tre raccolte (e nel ’55, da Vallecchi, un volume che le riuniva tutte) continuava ad essere una figura piuttosto defilata e inclassificabile.
Fu Leone Piccioni a farmelo conoscere, parlandomene una sera d’agosto del ’65 in una villa di Camaiore. Quattro anni prima era uscita nello Specchio di Mondadori L’estate di san Martino che lo consacrava come uno dei primi poeti del secolo. All’epoca, andato in pensione come impiegato del Genio Civile, Betocchi lavorava alla radio, scrivendo pazientemente recensioni su recensioni per l’Approdo. Era un lettore attento, scrupoloso. E spesso alla recensione faceva seguito una lettera per l’autore, lunga e circostanziata. Così cominciò la nostra conoscenza: attraverso alcune lettere che mi lasciavano sorpreso e commosso per la loro serietà.
Allora mi capitava anche di incontrarlo, in genere a Firenze. Di statura media, un po’ curvo, vestiva normalmente di scuro. Aveva smesso da tempo il lavoro nei cantieri, ma gliene era rimasto addosso come un velo di polvere impalpabile. Anche le mani erano quelle di un uomo avvezzo a trattare con gli arnesi del mestiere, non dico con i mattoni e la calce. Aveva il viso bruno un poco arrossato; gli occhi scuri sbirciavano ridenti di sotto le palpebre un poco abbassate. A vederlo, un uomo di poco conto, desideroso di non apparire. Guai ad accennare nel corso della conversazione ai suoi meriti poetici. Si metteva a parlare d’altro, o meglio di altri. «Luzi, Caproni… loro sì», diceva.
Non era un atteggiamento. La modestia di Betocchi nasceva dal profondo dell’essere, era all’origine stessa del suo poetare. «Cominciai coi primi canti (sono parole sue, di un’intervista data a Valerio Volpini) a dire il meno che potessi di me e il più che potessi dell’ignoto essere che mi circondava». E più oltre, nella stessa intervista: «Se c’è una cosa che mi ha allucinato è stata la realtà in tutto ciò che si vede e che comunque viene chiamato il mondo. Solo la realtà e non il sogno». E ancora: «Sono rimasto fondamentalmente fedele a questa convinzione: la poesia nasce dal rinnegamento di se stesso».
I versi della poesia-dedica, in apertura dell’estate di san Martino, lo confermano. «È l’opera comune che ha valore / …Il più sincero creder comune, fiamma di candele / ex-voto che favellano al mistero / consumando il lucignolo, e le pene / nel pensier generale, e qual si spegne / prima non conta è la vita che tiene».
La vita: quest’uomo dall’aspetto e dal cuore umile ne traboccava. Agli intimi confidava di «balzare addirittura dal sonno, lucidissimo, chiamato a destarmi da qual flusso veemente che avevo dentro e che s’era fatto parola che mi buttavo a trascrivere».
In questo modo pareva a Betocchi di prendere parte al gran mistero della creazione. E dopo, guardando la propria opera (un grumo di versi ancora in fermento) di stupirsene come se fossero di un altro, sentendo ancora gorgogliare la fonte lontana che li aveva prodotti.
Con lo stesso sentimento di meraviglia e di gratitudine, immagino che nei suoi anni di edile al servizio del comune di Firenze, gli sarà capitato di guardare un ponte o l’argine di un fiume, aggiunti alla natura dal lavoro dell’uomo, e lodarne l’utilità.
Dopo l’Estate di san Martino in Betocchi avviene una metamorfosi. La sua poesia così nativamente melodica diventa riflessione «filosofica» e quindi indifferente alla seduzione della bella veste sonora che ci affascina nelle prime raccolte. I suoi versi, a cominciare da Un passo, un altro passo si adeguano ai ritmi più lenti della prosa, più adatta a una severa meditazione sulla vita.
C’è stato anche un ripensamento riguardo alla idea di «oggettività» che l’aveva sedotto in giovinezza. Betocchi ha quasi rinnegato Rimbaud. «Forse davvero, e tanto meno ora che invecchio – confessa –- io non ero nato per una poesia fondata su quel piano oggettivo che esige, del resto, i grandi intelletti». Betocchi non lo dice ma si riferisce a Dante e Manzoni. E davanti a questi esempi massimi di poesia non soggettiva, sembra volersi condannare a riprendere da capo il suo discorso, cominciando a rivolgersi a se stesso, e ripartire da lì, interrogandosi sul perché e sul come. «Sono giunto fin qui, non c’è più strada / Possibile? Pareva così certo il cammino…». Sono anni di eventi drammatici e dolorosi. Dalle sue finestre all’ultimo piano di una casa di Borgo Pinti, nell’ottobre del ’66 ha assistito alla biblica inondazione che ha sommerso Firenze. Nella stessa casa ha vissuto la crudele, lunghissima malattia della moglie. «Non ho più che lo stento d’una vita / che sta passando, e perduto il suo fiore / mette spine e non foglie».
È un uomo solo, ora, con tutto il peso degli anni sulle spalle incurvate, il passo un poco zoppicante, il pensiero che vagola intorno a sé stesso. E tuttavia ogni giorno che nasce è sempre una sorpresa: «…Rieccomi all’alba, e ne emergo / con tutte le mie magagne / impassibile come quei muri al sole…».
Diceva di aver smarrito la fede. Un giorno me lo disse con un mezzo scoppio d’ira scaturito da un improvviso accumulo di sofferenza. «Mi sento – disse – come un filo d’erba secca». E correggendosi: «Ma sempre abbracciato a Gesù».
Intanto gli occhi avevano ripreso a sbirciare ilari fra le palpebre appesantite; segno che il «filosofo» non riusciva a reprimere il fermento di vita ancora attivo nel cuore del «poeta». Insieme guardavamo gli amati tetti di Firenze, i coppi di un rosso rugginoso e caldo distesi variamente in giro. «Alla pari di me, tetto avvampato dal caldo / e dei miei limiti brevi, e breve percorso / tu fra la doccia e il culmine, irsuto mio tetto, / lento t’arrampichi, persisti, resti: e lasci / che parli il cielo di là da te, per te». I versi continuavano a testimoniare, per lui, l’antica fede.