Cultura & Società
Turoldo frate e poeta, un ricordo a più voci
DI LORELLA PELLIS
Lo conobbe ancor più da vicino Anna Meucci, vedova di Giampaolo, uno dei personaggi di spicco del laicato cattolico di quegli anni, allora procuratore della Repubblica, poi presidente del Tribunale dei minorenni: «Io e mio marito ricorda lo abbiamo frequentato moltissimo, anzi lui all’inizio era un po’ disorientato perché non sapeva come fare ad abbordare i fiorentini che facevano una battuta dietro l’altra, Giampaolo per primo. Poi siamo diventati così amici che finì anche per adeguarsi al linguaggio fiorentino, qualche volta un po’ becero. Era come se ci si fosse conosciuti da sempre: l’amicizia derivava da un comune modo di sentire non solo dal punto di vista religioso ma anche da quello dei problemi del paese, tanto che eravamo sempre d’accordo su come affrontarli e risolverli. Da molti fiorentini era amato, alcuni cattolici lo consideravano pericoloso, ma aveva un bel seguito. La Pira, poi, lo aveva incantato, hanno avuto un’intesa perfetta». In una dedica su un libro scrisse: «All’Anna e a Gianni perché mi fanno amare ancora di più Firenze». «L’ultima volta l’ho visto all’ospedale a Padova rammenta ancora la signora Anna era sempre lucidissimo, e volle fare anche allora alcune battute».
Lo ricorda con affetto anche il figlio, Piero Meucci, attualmente giornalista al «Sole 24 Ore», che il 15 maggio del ’76 si sposò con una figlia di Raffaello Torricelli. A celebrare le nozze fu proprio padre Turoldo: «Fate una casa e non un appartamento, ci disse in quella circostanza, con una di quelle sue espressioni che potevano sembrare quasi banali ma che invece diventavano dei grandi messaggi». «Era continua Piero la personalità più forte, soprattutto dal punto di vista fisico, che frequentava casa mia: aveva una voce tonante, promanava una forza che colpiva, allora, uno giovane come me. Poi l’amicizia è proseguita e anche quando sono stato a Milano, alla fine degli anni ’80, ho potuto frequentarlo. Rimangono indimenticabili i discorsi che faceva alla radio: ricordo quello nel giorno di Cernobyl, i primi di maggio di quando ci fu l’esplosione della centrale nucleare russa, mi ricordo un suo discorso alla radio sul silenzio di Dio che faceva venire i brividi. È stato uno dei più grandi predicatori di tutti i tempi. Quando mi chiamarono per dirmi che era morto fui uno dei primissimi ad arrivare lì dove era stato esposto; invece non riuscii ad entrare il giorno del funerale perché non arrivai puntuale e trovai una folla esagerata».
Una voce forte, provocatoria, ma mai oltre i limiti. «Eretico sarà lei!» replicò risentito a un membro del Sant’Uffizio che per scherzo l’aveva così apostrofato. È Torricelli a ricordare l’episodio, che era stato raccontato da padre Balducci. E a spiegarci: «Anche padre Turoldo come don Lorenzo Milani, con il quale ebbe fraterna amicizia, poteva tuonare la sua invettiva per una Chiesa più eroica di fronte alle necessità dei poveri, tantoché pagava di persona per le sue idee, ma sempre nell’ortodossia più assoluta».
Poi venne la malattia, che lo ricondusse, come ricorda Piovanelli, «in un atteggiamento diverso da quello di prima, certamente più profondo, senza peraltro rinunciare a quelle che erano le istanze profonde di quel tempo là». Un atteggiamento ben descritto da Mario Luzi nel depliant che sarà distribuito il 6 febbraio alla Santissima Annunziata: «Come in Giobbe si rinnova l’aspirazione a un dialogo diretto con il Padre che non risponde, che si cela, che lascia adito al Nulla. In questa tensione dove l’antagonista non è più il mondo e la sua iniquità ma il proprio bruciante desiderio inappagato, il proprio amore frustrato, Turoldo si innalza alla statura dei grandi mistici». È una posizione nuova che si fa strada e che gli fa dire anche, sottolinea Piovanelli, «che quello che è accaduto e che riguarda la sua vita personale è dovuto accadere perché il raccoglimento mi salvasse». «Sono sicuro conclude l’arcivescovo emerito di Firenze che lui ha vissuto in una maniera molto profonda questo suo essere aggredito dal male e lo ha espresso bene nella sua poesia, quando diceva: In questo slancio finale non cedere mio cuore alle stanchezze. Questo darmi ancora e lasciarmi divorare dica con quale umile passione, vita, io ti amavo e come ora con la morte vorrei sdebitarmi e pagare lietamente il pedaggio d’entrata. Una testimonianza bellissima».
Fu lo stesso Turoldo, nel consegnare il manoscritto a Garzonio, a sottotitolare il volume «Vocazione e resistenza»: poco tempo dopo sarebbe morto, così che la scelta di questo binomio appare come la sigla riassuntiva della sua esistenza. Vocazione, perché tutta la sua vita fu visitata dal dramma di Dio, e fino all’ultimo, chiedendosi «se ancora mi rifarei frate», conclude che «non poteva capitarmi sorte migliore». Resistenza in quanto, come è stato scritto, egli fu «chiamato a farlo dall’alto». Queste ultime pagine turoldiane permettono al lettore di compiere un triplice viaggio: «nelle vicende politiche e sociali di mezzo secolo italiano a partire dalla resistenza antifascista; nella primaverile stagione del concilio; all’interno dell’anima di uno dei più amati poeti italiani, tra le sue letture, i suoi maestri, i suoi sogni e i suoi amici».
David Maria Turoldo, La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza, Mondadori, pagine 242, euro 15,00.