Cultura & Società
Tozzi e Siena, uno scrittore e la sua città
DI LORELLA PELLIS
La mia anima è cresciuta nella silenziosa ombra di Siena, in disparte, senza amicizie, ingannata tutte le volte che ha chiesto d’esser conosciuta». Sono parole di Federigo Tozzi, lo sfogo di uno scrittore che amava la propria città ma che la considerava anche la sua gabbia raffigurandola spesso come tutta raccolta in sé e inaccostabile. Ed è proprio questa città dai vicoli storti e dalle piazze ariose che si accinge ad accendere i riflettori su questo scrittore, grande al pari di Svevo e Pirandello. Ma quanto si è «servito» Tozzi nelle sue opere di Siena e che cosa essa ha rappresentato davvero per lui?
«Accade raramente, nella letteratura italiana del Novecento, che una città sia anche protagonista di un romanzo. Certo ci dice Riccardo Castellana docente di Letteratura italiana all’Università di Siena c’è la Trieste di Svevo, o la Roma di Pasolini, ma Siena non fa solo da sfondo alle storie di ordinaria tragicità di Tozzi: è quasi un personaggio a sua volta, vivo e sofferente, al pari di Pietro, l’inetto protagonista di Con gli occhi chiusi, e del suo doppio Remigio, nel Podere».
Del resto, è comprensibile il legame di uno scrittore con la propria città. «Sì, ma non si tratta solo di questo», precisa Castellana. «La Siena di Tozzi è anche come scrive Santa Caterina nelle Lettere città dell’anima, metafora di una condizione esistenziale che trasfigura la realtà biografica. Le strette vie medievali, le case addossate l’una all’altra, quasi schiacciate dalla mole del Duomo, i vicoli bui e silenziosi, comunicano ora un senso di profonda angoscia ed inquietudine, di partecipazione del mondo al dolore del personaggio, ora, invece, un’impressione di sovrana indifferenza delle cose, di enigmatica estraneità del reale alle vicende umane».
Secondo uno dei massimi esperti di Tozzi, Marco Marchi, curatore del «Meridiano» Mondadori, «Siena costituisce per Tozzi «una proiezione, un’estensione. Il rapporto che lo scrittore intrattiene con essa è, sostanzialmente, conflittuale come quello intrattenuto con il padre, a sua volta sentito come un Dio imperscrutabile e lontano, chiuso al colloquio e minaccioso». «Ecco la Siena persecutoria, che fa paura spiega Marchi pesantemente medievale ed espressionistica, città delle ossessioni e delle oppressioni; ecco la Siena che, come il figlio, si fa emblema del degrado, della dimenticanza, dell’abbandono e dell’insicurezza. Ecco infine, a tratti, pure una Siena aerea e luminosa, armonica stilizzazione dell’anelito al riconoscimento e all’appartenenza, della fuoruscita da una condizione dolorosamente subìta di oscurità, di occhi chiusi.
Anche la campagna e gli immediati dintorni di Siena svolgono una funzione di primo piano nei romanzi e nelle novelle tozziane. Con gli occhi chiusi è ambientato infatti in gran parte nel podere di Castagneto, «sulle colline come precisa Castellana che guardano la città da nord ovest, alto sopra la via di Pescaia, tra gli olivi e i cipressi di Poggio al vento (poggio a’ Meli nella finzione romanzesca). Locus amoenus, si direbbe, se non fosse che l’idillio tra Pietro e la contadina Ghìsola è solo una proiezione soggettiva del giovane, incapace di guardare ad occhi aperti la realtà e di risvegliarsi dal sogno dell’infanzia».