Cultura & Società
Tozzi, rileggendo «L’incalco»
Emma Palagi, moglie di Federigo Tozzi, forse per proteggere la memoria del marito, scrive: «Alla fine del 1919 abbozza L’incalco ma non ha tempo di finirlo», entrando in una questione difficile da risolvere. Nessuno può giudicare se effettivamente l’ultimo dramma tozziano, testamento morale, scritto durante il soggiorno nella capitale (sessennio romano 1914-1920) a pochi mesi dalla scomparsa (marzo 1920), fosse effettivamente da rivedere. Nel testo la relazione padrefiglio è talmente problematica, individuale, che non può essere affidato al giudizio altrui.
Tozzi, cresciuto con l’esempio della durezza, dell’arroganza, della violenza fisica del padre («Egli mi prese e mi piegò in terra facendomi un poco male ad un fianco e pigiandomi uno zigomo»), ha un animo tra il collerico e il sensibile che trova nella scrittura una valvola di sfogo. Per tentare di esorcizzare la sua nevrosi dà vita nei romanzi, nelle novelle, nel teatro a sottili ritratti psichici, simboli della sofferta transizione etica e sociale tra le certezze borghesi dell’Ottocento e le insicurezze psicotiche del Novecento.
La preparazione intellettuale di Tozzi i suoi cultori lo sanno deriva dai «misteriosi atti nostri». Il suo mondo interiore, quindi, non gli offre argomentazioni per scrivere una tragedia riecheggiante il mito greco come in Affabulazione di Pasolini (1977).
Lo scrittore romano, rispetto all’autore senese, può giocare su modelli incestuosi e concettuali che, in tempi moderni, razionalizzano il tragico sogno-epilogo di un rapporto edipico alla rovescia: non più figlio-amante della madre, ma padre innamorato del figlio, della sua virilità, della sua giovinezza. La tragedia è un diabolico ingranaggio psicologico dove il Padre-industriale-potente-marito-padrone, trascinato nel folle disegno sesso-possesso, rivela una terrificante realtà psicotica testimone di un amore paterno deviato dalla sete di onnipotenza. L’assurdo possesso può simbolicamente eguagliare il lapidario concetto del «Pater familias» de L’incalco «Tu sei carne della mia carne». Il Padre contestualizza la metaforica «paura» degli adulti nel vedere i figli entrare nel tunnel della vita. Il crudo modello familiare dei drammi, costruiti su realtà, finzione, patologie sessuali-psichiche, miti greci, immagini interiori, narra, infatti, un agghiacciante rapporto di miseria, sia etnica che psichica, nel perenne incontro-scontro generazionale.
Resta comunque fondamentale per Tozzi l’esigenza di sottrarsi al dominio del padre, che nel frattempo si è sposato per la seconda volta e ha una relazione con una domestica. Nel gennaio 1907 si reca a Roma alla ricerca, peraltro sfortunata, di un impiego come giornalista. Tornato a Siena, concorre a un posto di lavoro nelle Ferrovie; lo vince, e deve restare a Pontedera per circa un anno. Ottiene quindi il trasferimento a Firenze, ma lascia l’impiego per la morte del padre (15 maggio 1908).
Si sposa con Emma ritirandosi nel podere di Castagneto. Nel 1909 nasce il figlio Glauco.
È il 1910 che segna l’intensificarsi per Tozzi dell’attività letteraria: scrive Ricordi di un impiegato e Con gli occhi chiusi. Già da tempo in amicizia con Domenico Giuliotti fonda con lui nel 1913 la rivista La Torre.