Cultura & Società
Un tè con Personè
Ma la confidenzialità, che è parte d’ogni amicizia, in questo caso viene condizionata dal rapporto sacramentale, e a pochi giorni dalla morte dell’amico è difficile svincolare le mie impressioni umane dal clima privilegiato di apertura che sussiste tra sacerdote e penitente.
Alcune cose però posso dire, senza invadere aree riservate o in ogni caso delicate. Posso affermare, ad esempio, che Personè era credente: un cattolico leale, anche se non acritico. Era inoltre umile: notando la predilezione del Santo Padre per le canonizzazioni, affermava spesso di non voler recarsi a Roma, per paura d’essere, lui stesso, portato agli onori dell’altare, paura che, come gli spiegavo da confessore, nel suo caso era forse infondata, e lui rideva.
Nonostante i suoi 101 anni passati, Personè non aveva paura di morire; anzi, chiedeva agli amici sacerdoti di pregare per la sua morte. Alla sua età, diceva spesso, la vita diventa solitaria: la maggior parte degli amici e parenti è già morta. Poi, guardandosi attorno, e con un gesto indicando l’elegante salotto in cui riceveva i visitatori, aggiungeva: «Ma qui non muore nessuno!».
Il desiderio di morire di Luigi Personè non era morboso. Nasceva dal realismo del giornalista e dell’uomo di mondo, con una componente di fede religiosa e un’altra di umorismo. Personè amava raccontare di un prete a cui aveva chiesto di pregare per il suo decesso, il quale, essendosi impegnato in tal senso, telefonò il giorno dopo per dire che, a sua volta, aveva chiesto a delle suore di unirsi alla preghiera, e che c’erano ormai ottanta consacrate, una comunità intera, che così impetrava la Divina Provvidenza per la morte del professore. Con un sorriso ironico, Personè faceva capire che tanto zelo era forse eccessivo, e poi osserva: «Le preghiere di quelle suore non sono molto efficaci: eccomi ancora qui!».
«Qui» voleva dire evidentemente: «in questo mondo»; ma per Personè centenario significava anche «in questa casa», il grande appartamento appena dentro le antiche mura di Firenze dove da più di mezzo secolo viveva, scriveva, riceveva gli amici (attività che ha portato avanti quasi fino all’ultimo), e dove ora è morto. La casa è bella, con tra i dipinti e mobili antichi collezionati dal professore e dalla Signora Personè (deceduta molti anni fa) anche un magnifico écritoire appartenuto al Carducci; è una casa piena di libri, dipinti, fotografie. C’è il bravissimo Emilio, che da 50 anni accudiva Personè e portava il tè quando c’erano visite: Emilio che ha curato Personè con affetto sincero, attento, filiale. C’è anche un pappagallino che ho visto una sola volta, ma che sentivo in una stanza vicina e che m’interessava (nel mio ruolo di confessore) perché era fonte di consolazione e, direi, oggetto di contemplazione per il professore, che narrava con toni di sempre fresca meraviglia le perfezioni di questa creatura, in cui Personè vedeva la grandezza del Creatore.
Il mio amico apparteneva veramente ad un altro secolo. Non al Novecento, anche se per l’anagrafe sarebbe stato quello il suo tempo, e neanche all’Ottocento, in cui nacquero e vissero i suoi genitori e formatori intellettuali e morali. Quando lo vedevo in veste da camera col foulard di cachemire, seduto nella sua poltrona a prendere il tè d’inverno con i guanti pensavo soprattutto al Settecento (magari la seconda metà): ai savants illuminati ma con i sentimenti intatti, aristocratici ma umili, arguti realisti eppure generosi.
In gioventù, Personè aveva cercato i grandi della terra, molti dei quali egli riuscì a intervistare per la stampa. Ebbe per molti decenni il privilegio di essere introdotto in quei privatissimi saloni dove i grandi personaggi ricevono, e da cui non possono neanche facilmente uscire perché sono, appunto, «grandi». Nella vecchiaia era lui invece che non poteva uscire: glielo proibiva il suo medico, offrendo come unica spiegazione l’asserto che «a 100 anni non si può uscire di casa». Il professore mi chiedeva se questa fosse una regola generalmente riconosciuta, se cioè mi sembrasse ragionevole asserire che, solo perché uno ha 100 anni, non debba uscire all’aria aperta, rivedere la città, sedere sotto un albero. Che gli potevo rispondere? Ci sono forse regole per i centenari? Anche se ce ne fossero, non ho ancora l’età per saperle.
Così come disposto da Personè, giungeranno ora a Prato, sempre all’Archivio diocesano, anche i manoscritti.
Scrive Personè: «La Belle époque dura, nella sua effettiva sostanza, una cinquantina, o poco più, di anni, a esser larghi. Significa che le sue caratteristiche hanno una data oltre la quale si estinguono. Sono genuine, sì, come tutto ciò che appartiene alla storia, ma minori. In che consistono, a dirla breve? A suscitare prima fascino, poi nostalgìa. Fascino per che cosa? Per un certo tipo di vita che, per comodità, noi definiamo sollazzevole, o, se non ci si vuole spingere a tanto, sereno, estraneo a forti scosse, anche a forti passioni. Come? Non ci furono forti pasioni durante la Belle époque? Sì che ce ne furono: ma si consumavano nell’ombra.
Lasciamo i mezzi termini e richiamiamoci alla vera realtà. Sta nella finzione, nell’eufemismo di ipocrisia. La finzione è la chiave di volta della Belle époque, il dato essenziale della sua fortuna. Vivere nell’ipocrisia. Ma si può vivere nell’ipocrisia? A lungo, no; per un breve tempo, sì. E in quel breve tempo si è felici».
Luigi Maria Personè, Donne della Belle époque, a cura di Emilio Lanzini e Roberto Mascagni, Polistampa, pagine 104, 10 euro.