Cultura & Società
Donne sull’orlo di una crisi linguistica
Malintesi di questo tipo sono all’ordine del giorno, e strappano anche una risata, ma nella vita reale l’uso del maschile «onnivalente», cioè in riferimento sia all’uomo sia alla donna, provoca ormai un certo disagio. Interpellare una donna che ricopre una carica istituzionale o svolge una professione «importante» con un titolo maschile dà la sensazione di usare un linguaggio inappropriato: un po’ sessista, diciamolo pure. Questo perché c’è un forte rapporto tra lingua, pensiero e realtà: il linguaggio è un sistema che riflette la realtà e insieme la crea.
Molto semplicemente possiamo dire che l’uso del genere grammaticale maschile evoca un uomo, e quello femminile una donna. È per questo che l’attesa a una cerimonia del «signor Prefetto» fa prevedere l’arrivo di un uomo, e che annunciare «il marito del signor Ministro» può creare imbarazzo. «Dobbiamo» dunque usare il maschile in riferimento agli uomini e il femminile per le donne? Suggerirei di sì. Del resto l’aveva sostenuto già vent’anni fa (1987) Alma Sabatini nelle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, una ricerca promossa dalla Commissione Nazionale per la realizzazione della Parità tra uomo e donna, con cui rifletteva sul rapporto tra una lingua per tradizione «maschilista» e l’evoluzione della società che vedeva la conquista, da parte delle donne, di professioni e ruoli tradizionalmente riservate agli uomini (chirurgo, rettore, prefetto, assessore, deputato, ministro, tanto per fare qualche esempio).
Fece scalpore la proposta di usare il femminile per i titoli professionali e le cariche istituzionali ricoperte da donne, «inventandolo» addirittura se non esisteva attraverso regole precise i nomi in -o dovevano mutare in -a, quelli in -sore in -sora, ecc., evitando le forme in -essa perché anticamente indicavano la moglie di qualcuno (la principessa è la moglie del principe, ecc.), e quindi davano l’idea di derivare la loro funzione da quella dell’uomo.
Ma le resistenze furono forti e tutti coloro che non avevano mai esitato davanti alla coppie maestro/maestra, pastore/pastora, infermiere/infermiera, puntarono i piedi, anzi la lingua, davanti a ministro/ministra, sindaco/sindaca, ingegnere/ingegnera. E questo la dice lunga sull’origine di questo «blocco» linguistico Forse nasconde l’esitazione a accettare che le donne ricoprano quegli incarichi? O si è invece convinti della necessità di superare lo scollamento fra una lingua costruita per gli uomini, e una realtà che vede le donne sempre più protagoniste della vita sociale, culturale e intellettuale? Abbiamo bisogno di tempo? Chissà!
Anche le istituzioni oggi sembrano aver messo in un canto la questione del «sessismo linguistico». La figura femminile che emerge da Italiane (2004), pubblicazione del Dipartimento per le pari opportunità dedicata alle donne più significative dalla fine dell’Ottocento a oggi, è descritta spesso con termini maschili: Adelaide Aglietta è stata «segretaria regionale» (del Partito Radicale), Susanna Agnelli «senatrice, sottosegretario e poi perfino ministro degli Esteri»; Tina Anselmi «ministro del Lavoro e sei volte deputato», Gae Aulenti è «scenografa» ma «architetto», Elda Pucci «sindaco», Elvira Sellerio «consigliere d’amministrazione della Rai» e una «editrice».
Un bel dribbling fra i generi, non c’è che dire. Si usano con disinvoltura annunciatrice, commessa, filologa, fiorettista, letterata, maestra, operaia, oratrice, psicoanalista, ricercatrice, scienziata, scrittrice, senatrice, ma rimangono roccaforte maschile architetto, amministratore delegato/unico, docente ordinario, deputato, ministro, sindaco!
Come orientarsi allora? Sul piano della comunicazione personale e informale ognuno è libero di comportarsi come crede, a patto di evitare equivoci, sebbene in questa fase socioculturale di transizione, nella quale c’è ancora il bisogno di consolidare l’ascesa femminile, sarebbe opportuno promuoverla anche attraverso scelte linguistiche precise. Su quello della comunicazione istituzionale, invece, manca una presa di posizione ufficiale, come si è invece avuta in Francia nel 1998 con il Ministro Jospin che ha stabilito l’uso del femminile per le cariche istituzionali ricoperte da donne.