Cultura & Società
Pubblicità, e se smettessimo di bere il caffè?
Soddisfatti? Sì, ma non rimborsati. In mezzo al frastuono pubblicitario, ha più impatto una campagna d’un giorno solo, ma accompagnata da articoli che parlano dello scandalo e ripropongono (gratis) la foto scandalosa, di una prolungata che diventi rumore di fondo. In altri termini, è lecito pensar male: la Sony non è rimasta affatto sorpresa dalla reazione scandalizzata, perché era esattamente ciò che andava cercando.
È la pubblicità del Duemila, signori. Uno dei problemi dei pubblicitari, oggi, è di farsi notare in mezzo alla tonnara di inserzioni e di spot. Il modo più semplice è scandalizzare. E i terreni praticabili sono, da sempre, i soliti due: la religione e il sesso. È un giochino facile e furbastro che alcuni pubblicitari si rifiutano di giocare, per dignità, ed altri invece giocano, invitando le aziende loro clienti a giocarsela. La Sony ha intrapreso questa strada e sarà bene tenerlo a memoria è esattamente quello che la Sony cercava, farsi ricordare perché se lei ha giocato cinicamente le sue carte, noi consumatori liberi e responsabili siamo ben capaci di giocare le nostre, al momento di fare i nostri acquisti e scegliere questa o quella marca.
Il gioco della Sony, lanciare una campagna destinata ad essere cancellata e apparire vittima della reazione clerical-beghina, non è nuovo. C’era riuscita di recente anche la Ikea, con una parodia dell’Ultima Cena interpretata da donne (foto a destra), non qualsiasi ma top model leccatissime, e un unico uomo di schiena, con il claim: «Non c’è più religione». Difatti. Anche qui i soliti bigotti «hanno frainteso»; o invece hanno capito benissimo. Ma che fare? Se reagisci stai al gioco dei provocatori; se taci passi per pusillanime e li inviti ad alzare il livello della provocazione; insomma, è un gioco al quale possiamo soltanto perdere, apparentemente. Certo, ci resta una possibilità: se abbiamo bisogno di un mobile economico, perché andare proprio all’Ikea?
Piccole soddisfazioni. Ad esempio, se prima di cena ci troviamo al bar con gli amici, quale aperitivo scegliere? Ce n’è uno con un’idea fissa in testa, l’annullamento dei generi anzi no: degli orientamenti sessuali. La confusione. L’ambiguità. Si chiama Campari e presentava ieri una donna tigre che graffia i suoi amanti, maschi e femmine, felici di farsi graffiare; oggi una coppia che s’incontra e svela il reciproco segreto: lui è una lei e lei è un lui, oh che genialata. Il dato stilistico più inquietamente è però un altro. Il gioco seduttivo è sempre gelido, come algida è la fotografia, inespressivi sono i modelli, cerebrale il racconto. Non c’è passione, non c’è anima. E noi dovremmo berci un Campari?
Anni fa, realizzando un’inchiesta tra i pubblicitari sul futuro dell’advertising, e sentendo i più intelligenti, colti e sensibili di loro, sembrava sicura una cosa: le aziende avevano capito che il pubblico è stanco di provocazioni, trasgressione e scandalo, ed è molto meglio legare il proprio brand, il proprio marchio, a valori come la solidarietà e l’eticità, e al linguaggio della simpatia e dell’ironia. Eccoci serviti. Non c’è dubbio che alcuni stiano perseguendo questa strada, ma certo non tutti e forse neanche la maggioranza.
Sony, Ikea, Campari E se il peggio fosse altrove e ben mascherato? Che dire di quel caffè che da anni è la bevanda ufficiale del Paradiso (nella foto grande, Mago Merlino, uno dei protagonisti delle pubblicità Lavazza)? I toni sono lievi ed educati, le battute non superano per audacia quelle da oratorio, pur non essendo altrettanto efficaci. Ma nell’immaginario di tanti italiani, specialmente i bambini e i ragazzi, non abbastanza attrezzati criticamente, il Paradiso a poco a poco sta diventando quello, un luogo tutto bianco con le nuvolette come pavimento e l’onnipresente Bonolis (foto in alto a destra) che ti offre il caffè e non ti lascia in pace neanche lì. Nessuna offesa, nessuno scandalo: ma bonolizzazione, pardon: banalizzazione del Paradiso.
Il vero pericolo potrebbe essere questo: prendere i simboli della fede cristiana, cambiare loro contesto e così renderli non più riconoscibili per ciò che sono. Da tempo si sta facendo così con la Croce. In un eccesso di disinvoltura mercantile è stata piazzata ovunque, tra i seni taroccati delle dive agli ombelichi, perfino sulle mutandine. Così, guardandola, non pensiamo più a ciò che essa significa, la morte e risurrezione di Gesù Cristo. È un monile tra gli altri. E non pensiamo più a niente.
Ma non basta. L’offensiva contro i simboli religiosi, da decontestualizzare e privare di significato così da renderci tutti più poveri, è anche diretta. È in corso una campagna per tirar giù le croci delle cime delle montagne. Ai promotori c’è anche Reinhold Messner, per il quale le cime sono di per sé simbolo religioso e non hanno bisogno di niente non importa che cosa significhino quei segni: la fede di un popolo, un alpinista morto, una grazia ricevuta. Con stolida arroganza dicono: via quelle croci. Due di loro, come simpatica provocazione, hanno collocato in cima al Pizzo Badile, in Valtellina, un Buddha di un metro e trenta.
Nessun cristiano si sognerebbe di portare una croce su una vetta tibetana, e se lo facesse immaginatevi le reazioni sdegnate del mondo intero nei confronti della provocazione cristiana. Invece il Buddha sta là, e chi oserà toglierlo? Povero Cristo e povero Buddha, vilipeso il primo, strumentalizzato il secondo. E poveri noi, ma poveri sul serio: ci stanno spogliando del nostro patrimonio simbolico senza neanche chiedercene il permesso. Per renderci più liberi, dicono. Invece ci rendono più poveri e soli. Non liberatori essi sono, ma volgarissimi ladri.
Il premio è intitolato a San Bernardino da Siena, nato in realtà a Massa Marittima, predicatore francescano del 1300, e dal 1956 patrono dei pubblicitari. Oltre a essere stato un grande comunicatore, San Bernardino inventò anche quello che oggi sarebbe stato definito un «logo», che lo accompagnava come segno distintivo nelle sue prediche itineranti. Si trattava in realtà di un simbolo derivato dall’araldica: un sole con dodici raggi e al centro la scritta IHS (Iesus Hominum Salvator). «Questo scudo ha spiegato Monsignor Giovanni Santucci, vescovo di Massa Marittima-Piombino è la sintesi del suo insegnamento; veniva issato in alto e da solo diventava richiamo e invito. Questa idea ci ha spinto a promuovere il premio San Bernardino. Per porgere ai pubblicitari l’invito a confrontarsi, a discutere del loro lavoro, a cercare un’anima della pubblicità».
A curare la selezione delle campagne sono stati giovani ricercatori dell’Università Cattolica di Milano. Il premio, l’anno scorso, era andato alla campagna della Telecom.