Cultura & Società
Così i cattolici rialzano la voce
Cosa ne pensa della polemica sulle invasioni di campo della Chiesa italiana e del «silenzio» del laicato cattolico?
«Si legge che il laicato è reso silenzioso dall’iniziativa della gerarchia. Anche a proposito di Giovanni Paolo II si è detto che la sua grandezza carismatica ha fatto tacere la Chiesa. Lo stesso schema e lo stesso equivoco. La mia tesi è radicalmente diversa. C’è stato nei decenni un processo di immersione e quasi di invisibilizzazione del laicato cattolico, di quello che non taceva, entro la cultura politica comune. La scelta di libertà del laicato del dopoconcilio ha avuto l’effetto paradossale di omologarlo alle figure politiche egemoni. Troppi cristiani nella loro scelta per il mondo hanno cessato di pensare, operare e parlare con voce propria nella sfera pubblica. Ma, parallelamente, cosa è avvenuto? La funzione petrina, per la grandezza del pontificato di Giovanni Paolo II, ha preso in mano questo compito il parlare ad alta voce perduto quasi inconsapevolmente dai molti laicati e chiese nazionali. Con ciò la Chiesa tutta ha ripreso voce; è ritornato plausibile il nostro giudizio pubblico sui grandi processi secolarizzanti in nome della concezione cristiana del mondo e dell’uomo. L’idea che il laicato sia stato ridotto al silenzio dal Magistero è paradossale e assurda; essa suppone che il laicato parla quando è in dissenso, e che vi siano degli ambiti in cui il solo laicato deve parlare, come per un mandato specialistico. Ma la valorizzazione moderna del laicato, attraverso l’attribuzione di compiti peculiari, è stata tanto preziosa quanto congiunturale; nell’unico corpo ecclesiale parla chi ha la capacità, la qualità di visione, oltre che il mandato, a parlare. L’autentico profetizzare dei vertici gerarchici ha contribuito al processo di ricostruzione della soggettività cattolica; ed è assolutamente errato dire che il laicato è ridotto al silenzio: esso invece finalmente parla. Senza considerare che, dal punto di vista del polemista laico, si invoca un laicato cattolico che faccia resistenza, solo perché questo indebolirebbe la posizione e la voce della gerarchia».
Nel suo libro lei si sofferma anche a riflettere sul confronto con il terrorismo islamico e sulla pacificazione del Medio Oriente. Anzi fa addirittura una proposta di estendere al conflitto israelo-palestinese e a quello interno all’Iraq del dopo Saddam il modello concordatario sperimentato in Italia con il Trattato lateranense del 1929. Ce la spiega meglio?
«Propongo per la Terra Santa un concordato sui generis che implica un doppio riconoscimento tra due realtà che sono entrambe regolate in ultimo da un diritto sacro. L’idea di base è che si possono realizzare degli accordi molto importanti tra soggetti istituzionali asimmetrici: qui, da un lato uno Stato, dall’altro una comunità parte di una più vasta comunità religiosa transnazionale. D’altronde questo Stato (Israele) ha anche un fondamento religioso, mentre i palestinesi che appartengono alla umma sono anche una precisa popolazione, che domani sarà Stato. Ambedue le parti in maniera diversa hanno al loro interno una costituzione ad un tempo politica e religiosa. Allora l’idea è questa: che l’atto decisivo, quello che legittima in ultimo la nuova coesistenza fra i due Stati, deve essere anche pensato in termini di interpenetrazione tra diritti religiosi. Il diritto sacro islamico, che considera la Palestina e Gerusalemme come territorio proprio, deve accettare che una porzione di quel territorio possa essere sotto la sovranità di un altro diritto originario (così come nel 1929 una porzione del nostro territorio nazionale è stata restituita alla sovranità della Santa Sede). Un atto che si fa sapendo che si riconosce una pretesa legittima altrui per ragioni superiori, quelle della pace. Reciprocamente il soggetto Israele deve riconoscere legittimità e autorità all’atto giuridico-religioso islamico. In più lo stesso diritto sacro dovrà regolare un nuovo rapporto tra ebrei e musulmani e cristiani di Gerusalemme in maniera anche teologicamente adeguata. Credo fermamente e da tempo che il conflitto tra (e con) comunità concrete a struttura religiosa abbia soluzioni che passano in maniera non secondaria attraverso il ragionamento teologico».