Cultura & Società
Pane, quotidiano ma sorprendente
Con tutto il rispetto per il grande Cassiodoro, che ci tramanda queste notizie, e per i mitografi greci, le cose forse non sono andate proprio così. La farina di cereali cotta è molto più antica di Omero; probabilmente presente in civiltà antichissime, se è vero che il nome greco del pane, «artos» può essere messo in relazione con «ard», «farina» in persiano e con «arta», ancora «farina», ma questa volta in iraniano. Inoltre, per quanto riguarda il «panis» dei nostri antenati Romani, tra le varie ipotesi che sono state avanzate ha abbastanza credito l’idea che si debba riconnettere al verbo pasco, «nutrire, mantenere, alimentare», ma la etimologia è tutta da chiarire. Non così la storia.
Omero parla di pane e a Troia Schliemann puntualmente trovò pietre da mortaio per fare farine e luoghi di cottura. Di forni si può parlare in Grecia alla fine del VII-inizio VI secolo a.C.: il «pane», chiamiamolo così, doveva però essere qualcosa di speciale, da servire solo nei giorni di festa. Per il resto, erano farinate, che accompagnavano carni o verdure. Là dove si panificava, lo si faceva in casa e gli addetti ai lavori erano donne e schiavi. Il panettiere di professione e la sua bottega debuttano nelle città della Grecia antica dal V secolo a.C. ed è di epoca alessandrina il fiorire di una letteratura sul pane e sui dolci: Iatrocle, Arpocrazione, Archestrato, Trifone di Alessandria, per noi solo nomi, sono in questo campo i Pellegrino Artusi dell’antichità.
Anche nell’Italia preromana si utilizzavano cereali per fare stiacce e gallette: i Liguri erano famosi per questo e lo sono rimasti. L’evolversi della civiltà sul Tevere fece sì che in ogni casa ci fosse un forno domestico e ai più ricchi era dato di servirsi di uno schiavo panificatore. Preparare quell’alimento divenne ben presto una professione: stando a Plinio, i panettieri sarebbero comparsi a Roma solo nel 168 a.C: fu una importazione dalla Grecia e le corporazioni dei pistores questo il loro nome in latino sarebbero diventate potentissime.
Com’era il pane che Seneca, Nerone e soci mangiavano? Ce ne sono rimaste alcune forme a Pompei, giunte fino a noi in seguito alla tremenda eruzione del Vesuvio. Avevano foggia arrotondata, non piccola, compatta; la farina non era raffinata. Sappiamo però che non era tutto uguale: venivano fatti impasti diversi per determinate feste religiose, pani speciali per alcune categorie, come i soldati o i marinai. A quello rustico dei contadini si contrapponeva l’ateniese, che gli stessi Greci adoravano perché morbido, profumato, fatto con le farine bianche dell’Attica. Quello del Piceno era considerato una leccornia; quello d’orzo era per barbari e schiavi.
Nelle botteghe di Roma si potevano comprare pani fatti di farina di pesce seccato, proveniente dai paesi del Golfo Persico; dalla lontana Asia giungevano pani di riso, dai Medi quelli di mandorle. Pane per tutti i gusti, come si vede, ma non per tutti, se è vero che alla plebe prima e al popolo poi fu venduta a prezzi bassi o distribuita gratuitamente farina. «Panem et circenses», «pane e giochi del circo» rendevano gli imperatori graditi ai loro sudditi e i fornai cessarono di appartenere a libere corporazioni ed entrarono al servizio dello stato. La storia della società umana passa attraverso le forme di pane più di quanto comunemente si creda.
Dopo la caduta dell’Impero Romano e per tutto il Medio Evo esso tornò alla sua dimensione di prodotto casalingo, là dove era possibile, ed acquistò un suo rilievo in ambito monastico. Alle porte dei conventi file di mendicanti ricevevano pane e talvolta minestra; oppure una farinata calda, come succedeva in un monastero benedettino della Scozia, che rivendica l’invenzione della ricetta del pudding. Bisogna attendere il Rinascimento perché si torni all’arte dei fornai e si usino macchine impastatrici, sempre più perfezionate col passare del tempo. Da allora in poi è tutto un crescendo, o un diminuendo, a seconda dei casi della storia. Carestie e benessere, guerre ed occupazioni: il pane compare o scompare dalle tavole, vera e propria cartina di tornasole della situazione economica di un popolo. È celebre la frase di Maria Antonietta sul popolo che aveva fame ed al quale la sovrana ordinava fossero date brioches. Pare si tratti di una invenzione degli storici di parte avversa e che la regina di Francia mai l’abbia pronunciata. Noi fidiamo nell’intelligenza della donna che riteniamo incapace, in un momento tanto tragico, di scherzare su un cibo ricco di valori che vanno al di là della sua funzione primaria, di immediata risposta al bisogno di nutrirsi.
Il pane, fra le sue altre specificità, è anche simbolo di una regione, di un paese, porta il sapore di casa. Date ad un emigrato toscano in America un filone bianco, senza sale, e nell’East River si rifletteranno i boschi di Greve in Chianti; regalate una forma di Coiro ad un Ossolano in Toscana e Pontedera diventerà Domodossola.
Nell’immaginario collettivo rimane la persona del padre di famiglia che all’inizio del pasto prende il pane in mano, pronuncia il rendimento di grazie , lo spezza, lo distribuisce ai commensali: è quanto Gesù ha fatto nell’ultima cena, come personaggio di autorità, come Maestro a quella tavola; è quanto facevano i padri degli Ebrei, che avevano conosciuto anche la manna, il pane proveniente dal cielo. È quanto hanno fatto e fanno forse ancora in qualche angolo remoto di campagna i vecchi contadini, quelli per cui la pagnotta, il filone, hanno un valore «sacro» al di là di ogni significato religioso. È il frutto della terra e del lavoro dell’uomo, è il prodotto della fatica, il primo nutrimento. Non lo si doveva sprecare: le briciole si buttavano agli uccellini, le tovaglie si scuotevano sulle aie, coi tozzi rimasti si facevano squisite ricette, dalla pappa col pomodoro alla ribollita; non lo si deve sprecare, perché ancora adesso non tutti lo hanno. Speriamo che il terzo millennio porti ovunque la gioia e il profumo del più antico nutrimento dell’umanità.
Abbiamo fatto visita ad uno dei più famosi forni artigianali di Altopascio, «Il buon pane», che ha raccolto questa pesante ma preziosissima eredità della tavola. Avvolti da quei buoni profumi di una volta che evocano immagini ed atmosfere inossidabili allo scorrere del tempo, abbiamo chiesto ai proprietari, Massimo Pistoresi e Alessandra Antonioli, di svelarci il segreto del pane di Altopascio. «Sicuramente molto del successo è da attribuire all’acqua delle nostre zone, che oltre a determinarne il sapore ha anche la capacità di far rimanere il prodotto fragrante per diverso tempo. Il sapore insipido si coniuga bene con i sapori forti della cucina regionale».
C’è un ritorno ai sapori di una volta?
«Sì anche se il mercato ha cambiato le proprie richieste, si è passati dalle grandi forme da 2 chili ai formati più piccoli da 500 e 250 grammi, questo è dovuto alla diminuzione dei componenti dei nuclei familiari. C’è una richiesta molto differenziata, con un ritorno al pane integrale e ai vari cereali ricchi di fibre. È in crescita la richiesta di pane senza glutine e di pane azzimo mentre il biologico, visto il prezzo leggermente più alto, non ha ancora una presenza significativa all’interno del mercato».
Oltre all’acqua c’è qualche altro segreto?
«Una ricerca continua delle farine migliori provenienti da selezioni accurate e garantite. Ci teniamo particolarmente ad essere garantiti sulla totale genuinità delle materie prime evitando qualsiasi intrusione di farine OGM (Organismi geneticamente modificati). Puntiamo tutto sulla qualità del prodotto per soddisfare al meglio la richiesta specifica del cliente, a discapito delle grandi quantità».
Il fornaio evoca gesti antichi avvolti dalla notte
Ma si può dire che l’assenza di sale sia la caratteristica del pane di quasi tutta la Toscana, dove spiccano, tra gli altri, quello tipico di Altopascio (vedi servizio) o la «bozza» di Prato. Tuttavia, come in ogni regola che si rispetti, le eccezioni non mancano. Già nel pane di Montegemoli nato nel 1986 per riproporre il classico gusto del vecchio «filone» di campagna, prodotto con farina non raffinata e cotto rigorosamente a legna un pizzico di sale non manca. Altro pane tradizionale si trova nel vicino centro di Pomarance e può contenere non solo farina di grano tenero tipo «0» ma anche farina integrale, di farro o addirittura di girasole.
Ma i pani «meno toscani» della Toscana si trovano in particolare attorno alle Alpi Apuane, dalla Versilia alla Lunigiana e alla Garfagnana, dove, oltre al sale in più rispetto al resto della regione, si trovano anche altri ingredienti, a cominciare naturalmente dalle farine. Si va infatti dai pani di patate di Regnano (frazione di Casola in Lunigiana), della Garfagnana o dell’Alta Versilia alla «marocca» di Casola, cui viene aggiunta anche farina di castagne; dalla schiacciata di Seravezza, ottenuta invece con farina di mais e condita con lardo, aglio e rosmarino fino all’ancor più condito «pane marocco» di Montignoso, dove non c’è il lardo ma, oltre alla farina di mais, troviamo quella di frumento nonché olive, aglio, rosmarino, salvia e peperoncino. Altri pani tipici, di frumento e crusca, sono quelli lunigianesi di Vinca e di Po, Agnino e Signano.
In Garfagnana, terra del farro per eccellenza, non manca ovviamente nemmeno la tradizione del pane prodotto con questo cereale, mentre a Pontremoli troviamo un pane, o focaccia, le cui farine sono quelle di frumento e mais ma il cui gusto è reso particolare dalla cottura in teglie foderate di foglie di castagno. Alla «via dei pani delle Apuane» è stata anche dedicata una pubblicazione curata da Slow Food e distribuita in zona, mentre la stessa Slow Food ha provveduto ad attivare due «presìdi» per la marocca di Casola e il pane di patate garfagnino. Gli altri pani tipici, invece, sono stati schedati e descritti dall’Arsia (www.arsia.toscana.it).