Cultura & Società
Quaresima, il digiuno non è solo penitenza
I quaranta giorni che precedono la Pasqua rappresentano un tempo di astinenza e di mortificazione. Ma ha ancora senso tutto questo o fa irrimediabilmente parte del passato? E la rinuncia a cui la Chiesa ci invita non potrebbe essere più efficacemente sostituita da altre forme di sacrificio, magari maggiormente attente al sociale e ai bisogni dei poveri? Un filosofo (Sergio Givone) e uno storico (Franco Cardini) ci aiutano a capire il senso di una pratica sorprendentemente ancora valida.
di Lorella Pellis
Ha ancora senso oggi parlare di digiuno e di mortificazione?
GIVONE. Oggi parlare di digiuno e di mortificazione della carne è inattuale. Sembrano forme di misticismo di altri tempi. Credo invece che dovremmo ripensare un po’ a questa idea di rinuncia. Ci sono a mio avviso due modi per riflettere su questa idea: in primo luogo pensarla come espiazione: mi punisco per espiare un eccesso, per esempio, per ritrovare un equilibrio, ma la mortificazione e il digiuno avrebbero in questo caso un carattere sostanzialmente punitivo. Un altro modo, secondo me più interessante, di concepire il digiuno è considerarlo come un raccogliersi nell’essenziale, come un voler spogliarsi di tutto ciò di cui si può fare a meno. Mentre la punizione è una realtà negativa, il raccoglimento ha una funzione positiva nel senso che ci permette di vedere le cose in un’altra luce, dandoci la possibilità di goderne di più e meglio, di capire davvero cos’è l’acqua, l’aria, il cibo. L’essenzialità di tutto ciò ci appare solo nella misura in cui sappiamo prenderne le distanze e fare dei piccoli sacrifici.
CARDINI. Certamente sì che ha senso parlarne: anzi, digiuno e mortificazione sono necessari. La «libertà» secondo l’invalso modello occidentale è un’illimitata sudditanza dell’individuo ai suoi istinti e ai suoi impulsi. Sappiamo che il modo migliore per battere gli impulsi sia il controllarli e il dominarli, non già il soddisfarli di continuo. Le tecniche di controllo del corpo sono il segno della raggiunta libertà come autogoverno di se stessi: è questo che l’Occidente moderno delle diete e dell’anoressia non riesce a capire. Il modello da cui discende la pratica del digiuno e in genere tutte le tecniche di dominio del corpo e degli istinti è naturalmente quello di Gesù nel deserto di Gerico per i quaranta giorni di digiuno. La tradizione delle tecniche di controllo del corpo attinge a modelli che sono per la verità principalmente indiani e greci (i «ghymnosophistai») che non ebraici, ed è uno degli elementi che tengono aperto il discorso delle influenze mistico-ascetiche orientali (o esseniche) sul cristianeismo.
Qual è il significato più profondo del digiuno cristiano?
GIVONE. Credo che sia ancora un’altra cosa ancora rispetto a quello che dicevo prima. Le due accezioni che abbiamo considerato sopra sono presenti nella tradizione cristiana. Ma credo che nella Quaresima cristiana ci sia anche un momento di «imitatio Christi», ci si prepara alla Passione e alla Risurrezione e quindi è un itinerario che comporta il sacrificio di sé. Niente come il cibo è parte di noi stessi. Sacrificare almeno in parte il cibo significa rinunciare a parte di noi stessi. Se questa rinuncia viene letta nella prospettiva dell’imitazione di Cristo allora rappresenta un terzo momento, forse il più alto, dove la Quaresima è un cammino verso la Risurrezione.
CARDINI. Il digiuno cristiano è l’imitazione del digiuno di Gesù; il conseguimento della libertà sugli istinti corporali (che di per sé sono buoni ma debbono essere regolati); la solidarietà ritualizzata con quanti nel mondo hanno fame e sete (non solo di giustizia); il rispetto e il recupero della tradizione e quindi dell’identità, in un mondo cristiano che oggi dice di averne tanto bisogno e s’illude di recuperarla ad esempio sventolando i simboli religiosi in segno di sfida nei confronti dell’Islam, che è, viceversa, un’ostentazione strumentale e polemica blasfema.
Eppure nella realtà di ogni giorno il concetto del digiuno rischia di essere banalizzato e quasi strumentalizzato a fini politici come dimostrano, ad esempio, gli scioperi della fame…
GIVONE. Sono d’accordo, non solo banalizzato ma a volte strumentalizzato fino al ricatto. Il digiuno in funzione ricattatoria nei confronti degli altri è ciò che caratterizza malattie oggi in aumento. Pensi quante ragazzine soffrono di anoressia. Pur con tutta la cautela necessaria per parlare di certi argomenti, bisogna capire che l’anoressia è una forma di digiuno non, come nel caso di quello quaresimale, in funzione di una ricerca spirituale che mi fa crescere, ma proprio il contrario, in funzione della mia distruzione. È il lato negativo del digiuno cristiano, è il rovescio della medaglia, un rovescio che dà angoscia, sia che l’intendiamo come digiuno puramente strumentale, che serve per raggiungere un obiettivo (politico o altro), sia nel senso di richiamare su di sé l’attenzione (dei genitori, degli amici), quasi una forma di suicidio. È vero che la Quaresima, il digiuno cristiano e anche l’anoressia stanno in rapporto con la morte ma la Quaresima cristiana sta in rapporto con la morte per vincerla. Nel caso dell’anoressia, invece, ci si dà alla morte.
CARDINI. Il digiuno è banalizzato, strumentalizzato anzi peggio: c’è una sostituzione dei doveri etici e spirituali (tener l’anima in ordine al cospetto di Dio) con «doveri» idolatrici nei confronti del corpo; si considera il digiuno come mezzo per mantenere bellezza, efficienza fisica, giovinezza, non come mezzo per controllare il corpo al servizio di Dio e per onorare il Signore attraverso il sacrificio. Riscoperto con saggezza e moderazione, trovo che l’ascetismo sarebbe uno splendido antidoto al distruttivo individualismo degli occidentali e alla loro schiavitù rispetto ai sensi e alla materia.
Ogni anno con la Quaresima torna anche la pratica dei cosiddetti fioretti. Hanno un loro valore o sono inutili?
GIVONE. Mi capita di tanto in tanto di essere vegetariano. La scelta può essere di tipo etico (capire che sarebbe giusto non mangiar carne perché anche gli animali meritano il nostro rispetto) ma al di là di tutto questo c’è anche un motivo che definirei «estetico». Se io non mangio carne riesco a capire quanto possa essere buono uno zuppone di verdura. È proprio un ritrovamento dei gusti più semplici quello di cui mi rende capace la rinuncia o il fioretto. Non è una scelta puramente negativa in funzione dell’espiazione di qualche peccato ma una scelta di misura, di ordine, di riscoperta di ciò che non solo è semplice ma, a volte, anche più buono.
CARDINI. I fioretti hanno un senso, certamente: a patto che essi siano un sacrificio della propria volontà e dei propri istinti per onorare Dio e non un illusorio mezzo magico per estorcerGli delle grazie.
Il vostro personale cammino quaresimale è caratterizzato anche da fioretti e rinunce?
GIVONE. Osservo poco la Quaresima nel senso che tutte queste pratiche cerco di farle mie durante l’anno ma non necessariamente in concomitanza con la ritualità della festa liturgica. Quando non mangio carne sto bene. Se penso in termini di raccoglimento, è un mio cammino spirituale che porta dei frutti, anche se non sempre. Non aspetto la Quaresima per fare certe cose, ma cerco di distribuirle durante tutto l’arco dell’anno.
CARDINI. Io ci provo ad osservare la Quaresima: con qualche piccolo sacrificio in più (sono un cristiano all’antica, che continua a praticar il digiuno del venerdì anche se spesso se ne dimentica). Consiglierei la pratica della Via Crucis del venerdì. È molto meglio che non portar una croce al collo ben in vista con l’intenzione di «far dispetto» ai musulmani, ch’è una delle tante pratiche blasfeme con le quali oggi qualcuno s’illude di recuperare la propria identità.