Cultura & Società
Oriana Fallaci, l’arte dello scrivere
Dal canto mio, sono sempre stato purtroppo una «voce fuori dal coro». Comunque ho continuato a nutrire per lei un’inguaribile simpatia, anche se diceva e pensava quasi sempre l’esatto opposto di quel che dicevo e pensavo io. E ne spiegherò il perché parlandone, come diceva mia nonna, «da viva e non da morta»: vale a dire in modo libero. Non nascondo quindi che la ragione prima e più profonda della mia inguaribile simpatia per Oriana Fallaci stesse fin da quando ero uno studente universitario e lei una giovane ma già affermata giornalista il suo straordinario fascino. Non so se la si potesse davvero dir «bella» nel senso che noi occidentali diamo a questo termine. Ma quel che la rendeva irresistibile era la sintesi tra il suo sguardo duro e diretto, l’eterna sigaretta tra le dita, la finezza e la capacità di penetrazione della sua intelligenza, la sua coraggiosa aggressività, la nonchalance con cui portava il suo successo come si porta un abito usato ma uscito da un grande atélier.
Il secondo motivo della mia simpatia, che anzi la trasformava in ammirazione, era il suo straordinario mestiere, oserei dire la sua arte. Ritengo riduttivo il parere di chi ha parlato di lei come una grande giornalista. Forse era tale: ma certamente era qualcosa di più. Ho detto grande giornalista; non vera giornalista. I veri giornalisti sono un’altra cosa: sono quelli che nascono con il culto e la religione della verità obiettiva nelle vene; e sono, pertanto, quelli che illusi? ritengono che davvero esista nei fatti una sola verità, assoluta, univoca, seriamente distinta dal falso e dal finto, e che sia possibile coglierla e riferirla. Sono mai esistiti? Forse sì: e come tale non sono mai riusciti a distinguersi troppo bene dai cronisti, pur essendo magari dei cronisti di gran razza; ma, di solito, chiudono la loro carriera ignorati. I grandi giornalisti sono altra cosa: appartengono alla razza dei Montanelli, dei Malaparte, dei Buzzati. Una razza geniale cui la verità obiettiva, quella che sta nelle cose, appare sempre come troppo limitata, spesso meschina, talvolta deludente: e allora bisogna ridefinirla, magari inventarla, renderla insomma all’altezza di noi stessi, delle nostre aspettative, dei nostri progetti. Gli scoops di Oriana Fallaci sono stati spesso contestati, e non solo dai suoi detrattori: ci si è chiesti se certe situazioni, certi scenari, certi incontri-intervista con personaggi protagonisti del nostro tempo hanno davvero risposto alla realtà obiettiva dei fatti. Certo, nessun biografo prudente di Gheddafi o di Khomeini userebbe come fonte le loro interviste condotte da Oriana Fallaci.
Ma è importante, tutto questo? Lo sarebbe, se la si dovesse giudicare soltanto come giornalista. Ma essa era qualcosa di più: era una grande scrittrice. Il vero scrittore non si accontenta della realtà che gli sta dinanzi più di quanto se ne accontenta il vero pittore: altrimenti sarebbero sufficienti cronisti, notai e fotografi, i quali del resto a loro volta interpretano la verità molto più di quanto non la ritraggano. Dallo scrittore noi ci aspettiamo un’immagine più profonda della realtà, qualcosa che abbia a che fare magari con la radiologia spirituale e magari con la magia: e accettiamo con questo il rischio, sappiamo ch’egli è sempre anche un po’ sciamano e un po’ visionario; e perfino, perché no?, un gran bugiardo.
È per questo che il Vietnam, la Grecia dei colonnelli, il Vicino Oriente di Oriana Fallaci somigliano a quelli veri in una misura che non sapremo mai calcolare appieno: ma ci affascinano e ci commuovono perché sono i suoi, perché essa ha saputo interpretarli genialmente ed è riuscita a farci parteggiare, a farci dire sempre un «sì!» entuasiasta o un «no!» indignato, ma perdinci non ci ha mai lasciati né tiepidi né indifferenti. Libri come Niente: e così sia, Se il sole muore, Un uomo e Inshallah sono pietre miliari sulla strada d’un giornalismo difficile da giudicare quanto al suo valore di testimonianza, ma che senza dubbio è riuscito ad assurgere alla dignità di letteratura.
E ha sofferto: lei «arrivata», corteggiata, viziata, invidiata; lei affacciata dal suo attico sul Central Park; lei che si attaccava un istante al telefono e i potenti della terra correvano a risponderle. È stata una donna sola, per quanto fosse circondata da chi l’amava e l’adulava. Chissà quanta solitudine, quanto dolore c’era dietro al suo continuo sognare i ponti e le torri di Firenze. Ha portato faticosamente, talora teatralmente, ma sempre con grande dignità e con forte coraggio le sue croci: prima la tragica morte di Panagulis, poi l’aggressione dell’intruso, dell’«alieno» come diceva lei, quella feroce presenza distruttiva nelle sue viscere che tanto sembra, nei suoi ultimi scritti, proiettarsi in modo quasi allucinato sulla realtà esterna della nostra civiltà, del nostro mondo. Chi potrà dire fino a che punto, quando parlava del dilagare feroce ed oscuro del «pericolo musulmano» nel «nostro Occidente», non stesse descrivendo quello del suo aggressore interno nelle sue cellule? Chi sarà mai in grado di capire quanto di estrema, disperata volontà di credere veramente in Dio, nel Dio della sua infanzia e dei suoi ricordi, ci fosse nel «cattolicesimo ateo» dei suoi ultimi mesi, su cui molti mestatori massmediali hanno speculato, ma ch’era tessuto tutto di nostalgia e di amore disperato per una tradizione che per lunghi decenni aveva disprezzato e che l’aveva quasi aggredita di nuovo, come dicono sovente accada per le memorie dei primi anni che sommergono con un’onda di paurosa dolcezza chi è prossimo al trapasso?
Le siamo debitori, tutti; anche noi cattolici. Quelle parole scritte in Lettera a un bambino mai nato, che sono le parole dettate dalla sofferenza profonda d’una madre mai stata tale, hanno la forza d’una «Natività» giottesca e la potenza del Magnificat. Sono una preghiera laica ed atea che credo sia arrivata ai piedi di Dio molto prima di tante ipocrite e mediocri giaculatorie. Perché sta scritto che non tutti quelli che dicono «Signore, Signore» entreranno nel regno dei cieli; ma sta anche scritto che il Padrone della Vigna riserva la stessa mercede dei buoni lavoratori anche a chi arriva tra i filari al calar del sole, magari al suo ultimo raggio. Questà è la Carità di Dio, clemente e misericordioso; questa la Sua giustizia, che per fortuna non è la nostra.
Ho letto che a poche ore dall’estremo istante, del quale era ormai lucidamente conscia, Oriana Fallaci ha chiesto in un momento di sollievo dalla malattia di cenare con ostriche e champagne. Qualcuno ha visto in questo gesto una nota stonata, un sintomo di futile attaccamente alla vita materiale, uno spreco inutile, un atto di vanità o di gola. C’è gente che continua a pensare che in punto di morte si debba esser sempre e comunque alti e solenni, pronunziar frasi storiche o scriver commoventi lettere d’addio, darsi a scene strazianti o a preghiere ostentate o a manifestazioni di stoica e statuaria serenità. Io invece ho pensato a Francesco, che poco prima di chiuder gli occhi chiede di poter gustare ancora una volta i mostaccioli che madonna Jacopa de’ Settesoli usava preparargli e di cui era goloso: e lascia la terra così, col sapore di miele e di mandorle in bocca. Oriana aveva forse capito bene, come Francesco, che anche l’amore per la vita e le sue dolcezze è preghiera.
Addio, o meglio ancora lo speriamo arrivederci, Oriana. Hai certo molto da farti perdonare da Dio, come tutti noi. Ma non credo che il Signore vorrà privarsi della tua fine, intelligente e provocatoria conversazione. E io spero anche, e ti auguro, che lassù in cielo il Profeta Muhammad trovi il tempo e la pazienza lui ch’è un collerico, al pari di te di spiegarti a proposito dell’Islam due o tre cosette che ti sono sfuggite.