Cultura & Società

Famiglia. Così la rappresentano cinema e tv

di Armando Fumagalli

L’opinione comune, soprattutto fra chi ha un contatto vivo e diretto con molte famiglie italiane, ritenere che la televisione e il cinema diano una rappresentazione della famiglia fortemente spostata verso la devianza, la frammentazione, l’instabilità, la dissoluzione dei legami. È, effettivamente – checché ne dicano i dirigenti televisivi – un’opinione che ha il suo fondamento. Non solo i reality show o i programmi giovanili di Maria De Filippi danno una visione della vita e dell’amore come radicalmente instabile, sottomesso alla dittatura del sentimento quando non della semplice attrazione fisica, ma anche nelle fiction, che sono il prodotto di maggior ascolto e impatto valoriale della televisione, il panorama è fortemente contraddittorio.Diciamo contraddittorio proprio perché da una parte abbiamo prodotti validissimi e molto positivi da tutti i punti di vista: pensiamo per esempio alle molte fiction religiose di grande qualità e successo (fra le ultimissime Rita da Cascia, Madre Teresa, Don Bosco, Giovanni Paolo II ). Ma anche fra le fiction «laiche» – specialmente nel genere delle miniserie in due puntate – negli ultimi anni si sono avuti prodotti notevoli, anche questi grandemente apprezzati dal pubblico e premiati da ascolti altissimi: si pensi per esempio a Borsellino, Bartali, De Gasperi. In tutti e tre i casi si trattava di grandi personaggi di cui non si è potuto tacere la profonda fede e la vita familiare esemplare. Ne sono risultati tre ritratti davvero commoventi e convincenti.La cosa interessante è che in tutti questi casi si trattava di figure reali, ed è stata fra l’altro molto importante la collaborazione dei familiari ai relativi progetti, che hanno permesso di salvare la fedeltà storica e dare un ritratto fedele dei loro congiunti.Quando invece la «creatività» degli autori ha mano libera sembra assai più facile lasciarsi guidare da cliché ideologici che sono assai di moda. Facciamo due esempi molto conosciuti.Una serie breve molto importante è stata purtroppo una fiction in sei episodi, Commesse , che ha avuto punte di 13 milioni di spettatori in cui, dei sei personaggi principali, cinque donne e un uomo, fra i 20 e i 50 anni, sposata era soltanto una e tutte le altre erano conviventi o divorziate, e l’uomo era, «naturalmente», un omosessuale. Questa serie televisiva – mandata in onda più volte – era stata lodata come la fiction più realistica degli ultimi anni, «perché finalmente si avvicina allo stile di vita della gente comune…».Fra le serie lunghe, uno dei prodotti di più grande successo degli ultimi anni, che andava in onda la domenica sera, Un medico in famiglia, accanto ad alcuni aspetti positivi (tono sdrammatizzante, insistenza sul dialogo e l’affetto all’interno della famiglia, ecc.) era però innervato, soprattutto per quanto riguarda l’etica sessuale, di una sorta di totalitarismo etico. Sembrava cioè che l’etica edonista, per cui per esempio non solo è lecito, ma bisogna avere rapporti sessuali prematrimoniali (se non li si ha non si è normali), perché ormai fanno tutti così, era data come assolutamente scontata. Veniva detto (altra cosa statisticamente del tutto falsa) che ormai «tutte le quindicenni» fanno l’amore con i propri ragazzi, ecc.Questo, fra l’altro, è un prodotto che era considerato per famiglie, che era molto visto dai bambini, che ha avuto anche premi come miglior prodotto educativo, ecc.Uno dei motivi per cui innamoramenti, separazioni e divorzi sono all’ordine del giorno, e quindi si tende a rappresentare la famiglia in modo molto problematico e frammentato, è di ordine drammaturgico: l’anima di una storia è il conflitto, una qualche tensione che nasce e deve sciogliersi alla fine del racconto. Poiché i nostri sceneggiatori – cioè coloro che inventano e scrivono le storie per la televisione e il cinema – non hanno la sensibilità, né l’esperienza per cogliere e raccontare con finezza quelle micro-tensioni che ogni esistenza normale racchiude, quelle difficoltà quotidiane, quella necessità di piccoli ma continui sacrifici, ecc. ci si limita quasi sempre a focalizzarsi sul cliché dell’innamoramento e del corteggiamento fino alla conquista dell’amata/o. Ecco che i protagonisti delle fiction -soprattutto quelle in più puntate- non possono essere sposati: devono essere single, o divorziati o – al limite – vedovi. Perché se hanno una situazione sentimentale stabile sembra che non ci sia più niente da raccontare. Qualche volta, al limite, si racconta di due separati che alla fine si riuniscono: è già un risultato positivo, con l’aria che tira. L’apoteosi di queste dinamiche si ha con le soap opera tipo Beautiful , in cui i protagonisti si sposano cinque o sei volte, di cui magari un paio con la stessa persona.Ma il motivo più forte che porta a questa visione disgregata è che chi scrive per la televisione fa parte assai spesso di una cultura molto particolare, la cultura di una borghesia ex-illuministica. oramai più o meno radicale, che non pensa neanche lontanamente, non per cattiveria, ma semplicemente perché è cresciuta lontano da questo tipo di realtà, alla famiglia come la intende un cristiano o una persona umanamente retta. Queste persone non hanno idea di quello che è una famiglia normale, un marito e una moglie che si amano, il problema dell’educazione dei figli, anche perché pochissimi di loro sono sposati, quasi nessuno ha figli. Se a questo aggiungiamo i motivi drammaturgici di cui sopra, si vede come quella attuale sia una deriva più che possibile. Questa distanza, che in televisione è poi temperata dalla necessità di raggiungere comunque un vasto pubblico (che spesso premia le serie più «tradizionali», come Don Matteo sulla Rai o Distretto di polizia su Canale 5), è particolarmente evidente nel cinema italiano, che nonostante tutti gli sforzi industriali e le campagne stampa (e televisive: si veda quello che succede nei giorni del Festival di Venezia) che lo sostengono, non riesce a farsi amare dal nostro pubblico, perché continua a raccontare storie tristi e cupe, di disgregazione umana e familiare, che allontanano coloro che non fanno parte di questa élite intellettuale che si crogiola nelle crisi esistenziali di una cultura atea e senza speranza. I grandi successi delle fiction «buone», così come il grandissimo successo di quei film americani per il grande pubblico che hanno una visione sana della famiglia e dei suoi valori (si pensi a Nemo, Gli incredibili, Batman Begins, Forrest Gump, Il matrimonio del mio migliore amico, Deep Impact, L’uomo che sussurrava ai cavalli, e molti altri) rivelano a nostro parere l’emergere dei gusti e della sensibilità di un Paese reale che invece troppo spesso – dato che ormai è invalsa l’abitudine per un italiano su due di guardare la televisione la sera – è «costretto» a scegliere fra alternative che, in modo maggiore o minore, sono lontane dalla propria sensibilità.Queste riflessioni sottolineano la necessità, da parte di chi ha a cuore le sorti della famiglia e l’orientamento etico delle persone che vivono nel nostro Paese, di intensificare in ogni modo possibile l’evangelizzazione proprio delle persone che lavorano in questi mezzi, e d’altra parte, di suscitare, proprio negli ambienti che hanno più a cuore le sorti della famiglia, vocazioni professionali di sceneggiatori, produttori, dirigenti televisivi e cinematografici. In ambito cattolico c’è una notevole – e lodevole – tradizione di formazione del pubblico, di critica, di cineforum. Bisogna però passare a formare anche e soprattutto artisti, creatori, imprenditori e dirigenti. Non è impossibile, non è nemmeno difficile. Poco a poco in questo mondo professionale si vanno creando canali professionali di formazione sempre più chiari (facoltà universitarie, corsi di specializzazione e di formazione, ecc.), in un settore che per decenni è stato dominato dal pressappochismo e da forme di reclutamento molto «artigianali», quando non erano dominate dalle intromissioni della politica. C’è spazio, ormai, per chi vuole, di farsi avanti e forse nessun settore professionale – a parte lo specifico ministero pastorale dei sacerdoti – ha una così forte urgenza di professionisti che siano cristiani sul serio. Ma i film si possono anche scegliereArmando Fumagalli, che firma l’articolo in questa pagina, è direttore del Master in Scrittura e produzione per la fiction e il cinema dell’Università cattolica di Milano ed è autore di diversi volumi sul cinema e sui mass media. Tra questi, la serie Scegliere un film giunta con il 2006 al terzo anno. Si tratta di uno strumento ideale sia per i genitori che vogliono scegliere un film da vedere in famiglia, sia per chi organizza cineforum, soprattutto in contesti educativi (scuole, gruppi giovanili, associazioni).Scegliere un film è pubblicato dalle Edizioni Ares (pp. 488 euro 19) e l’edizione 2006, oltre a quella di Fumagalli, porta la firma di Luisa Cotta Ramosino, sempre dell’Università cattolica.

Il volume raccoglie 160 titoli di film considerati più significativi fra quelli usciti da giugno 2005 a maggio 2006. Per rendere la consultazione più rapida, oltre alla recensione vera e propria, a ogni film è attribuito un voto in stelline, da uno e cinque, frutto di un giudizio complessivo che tiene conto dei pregi estetici, ma soprattutto contenutistici.