Cultura & Società

Il Cielo appeso in cucina. L’inno ai santi di Mario Cipollini

di Carlo LapucciNell’ormai lunga metamorfosi che segna il nostro passaggio all’era industriale non c’è nulla che sfugga alla crisi dovuta all’insicurezza che il balzo nel vuoto, necessario in ogni mutamento, procura in ogni piano dell’essere: al livello materiale, sociale, psicologico e spirituale.

Anche la poesia, e diremmo quasi soprattutto la poesia, registra e vive questo disorientamento, anzi lo documenta e lo dichiara, accompagnando l’uomo nella faticosa ricerca della sua nuova strada. La poesia religiosa in particolare, che tanto splendore irraggiò sugli uomini nei secoli passati, oggi pare soffrire più di altri tipi d’espressione.

Così la forma da dare allo spazio sacro d’una chiesa, la rappresentazione di un evento della storia della Salvezza, l’immagine scultorea d’una figura dei Vangeli, sono ferme ancora al livello d’uno sperimentalismo che non soddisfa, e spesso fuggono in una retorica di tipo moderno, che spesso chiede aiuto a motivi esterni al religioso. Non siamo lontani soltanto dall’immagine del Cristo Pantocrator di Monreale, ma anche dalla Resurrezione di Piero della Francesca e perfino dalla migliore iconografia artigianale che ci ha accompagnato nel passato prossimo.

Molte retoriche, di natura diversa, avevano incrostato l’arte religiosa, e bisogna riconoscere che rispetto a quei modelli devozionali c’è stato uno svecchiamento, ma la strada nuova ancora non si vede. Pure bisogna trovarla: l’arte è sempre stata un mezzo di espressione fondamentale della religiosità, a cominciare dai testi sacri. Una reinterpretazione della realtà religiosa nella sensibilità del nostro tempo sarebbe un immenso soccorso alla vita spirituale. Si pensi a quanto la Divina Commedia ha influito nella mediazione tra il trascendente e l’immanente.

Vogliamo proporre all’attenzione dei lettori, nell’occasione della solennità di Tutti i Santi, un testo che ci è sembrato già una realizzazione, quanto meno una strada aperta per una nuova espressione di poesia religiosa. Abbiamo già avuto modo di parlare su queste pagine del poeta Marco Cipollini, presentandolo, con le numerose opere che ha al suo attivo, come una delle voci poetiche più consistenti e delle menti più preparate e attente al tipo di problematica che abbiamo delineato.

Prendiamo dalla sua opera inedita Inni trinitari questa poesia che ci è sembrata molto adatta a una meditazione sulla festa del primo novembre. Gli Inni trinitari non sono una semplice raccolta di liriche a tema religioso, ma un libro organico che, dal «Primo inno all’essere eterno» al grandioso, distesamente lirico «Inno all’essere transitorio», racchiudono tutto l’ambito ontologico secondo una visione cristiana. Sono dodici composizioni di varia estensione, introdotte da un testo intitolato «L’eternità», di una rarefatta musicalità di tipo gregoriano, e concluse da un altro, «Il tempo». Al centro, fra le composizioni dedicate al Padre e allo Spirito e quelle alla Vergine Madre, campeggia l’«Inno a Gesù di Nazareth crocifisso e risorto», un vero e proprio carme suddiviso in sezioni le cui lettere capitali, secondo l’uso di certi salmi, sono date dall’alfabeto.

Nulla a che fare con gl’Inni sacri manzoniani che si situano, rispetto alla nostra sensibilità nel versante perduto del nostro cammino: non abbiamo più né le sicurezze, né la dimensione agiografica di quel tempo e non fanno più parte del nostro orizzonte.

Sotto le immagini quotidiane di una modesta vita di sopravvivenza, di gesti ripetuti, di monotonia sia pure vitale, di parole che scivolano nel nulla, Cipollini riesce a scavare nella crosta della banalità e, rompendola, a raggiungere la dimensione del soprannaturale e del religioso. Nella sua accorata e toccante invocazione ai Santi, non importa se storici o frutto di un anelito a una comunione con l’ineffabile attraverso un segno, una figura, non chiede altre grazie che quella dell’amore, base di tutta una vita spirituale, cristiana o meno. Alla luce dell’amore anche il gesto più banale si riscatta e si proietta nella Vita Eterna.

In questo inno così semplice, coniato di parole comuni, privo di complicazioni di qualunque tipo, si manifesta la disposizione dell’uomo del nostro tempo verso il Divino: è quella di un Figliol Prodigo nudo e deluso dalle sue allucinazioni, stanco delle chimere che la modernità gli ha presentato in sostituzione dell’assoluto, e dice a Cristo le parole degli Apostoli: – Solo tu hai parole di Vita Eterna.Cipollini è poeta coltissimo e qui si trova naturalmente in sintonia, non solo con l’Inno alla Carità di San Paolo, ma anche con l’analisi intellettuale condotta da Eliot nella Terra desolata, nella quale la desolazione del mondo moderno è individuata nella sostanziale mancanza dell’amore o nella sua degenerazione.

La forza espressiva di questa poesia oggettiva, di una intensa partecipazione, crea un’architettura di misteriose risonanze, nella quale Creatore e Creato compiutamente s’intersecano nel centro della storia umana, l’Incarnazione. A sorreggere questo impianto c’è una struttura metrica rigorosa, con soluzioni stilistiche lontane anni luce dal presente lirismo autocompiaciuto, egocentrico e nichilista. Ci auguriamo che oltre a trovare la strada degli animi di chi legge, questa poesia, unica ci pare, possa entrare nel nostro patrimonio poetico, e ce ne pare assai degna.

INNO AI SANTI DEL CALENDARIOVoi, i cui nomi sul calendario in cucinaleggiamo distratti un anno dopo l’altro,uno dopo l’altro i medesimi nomi,dalla Madre di Gesù il primo gennaiofino a Silvestro, l’ultimo di dicembre,vi prego, ciascuno il suo giorno fissato,di proteggere da malattie e disgrazie,da litigi e malinconie questa casa,che è la sola arca solida sui marosidel mondo spalancato oltre questi muri,e fate che ci amiamo, come ci amiamo,ogni giorno di ogni mese di ogni anno,ché viver si può senza il pane dei sogni,ma senza un briciolo d’amore, si muore.Tanto vi chiedo, pure se non è incensoquanto esalano i fornelli (se non altrovi rammentano il mondo che fu anche vostro),lo chiedo a voi che restate imperturbatitra il fumo di pentole e i triti discorsia tavola, tra le stoviglie sciacquatee i frangenti dello schermo, sottofondodi tempeste che ci illudiamo remote.È questa la musica d’organo, questala sola liturgia quotidiana svoltada anime poco elevate, che di frontea troppe cose si chiudono in sé stessea starsene in pace, ed è fragile quiete.Senza alcun merito, chine di vergogna,si rivolgono a voi, congiunti da amoreschietto, ubriacante, in fila in un provvisorioparadiso di carta, coi vostri nomia volte ordinari, a volte un po’ bizzarri…Pelagia o Frumenzio, Bibiana o Tarsilia,Saturnino o Zita, Nereo ed Achilleoa coppia… Dovevate essere strani,e tali apparivate a me bambinetto,leggendovi: che fosse in quel buffo nomeil segreto della santità? Voi tuttivegliate su chi abita in questa casa,e sant’Antonio abate sulla canina,che ha la cuccia sotto di voi, per mancanzadi spazio, non di riguardo; ma è pur veroche più c’intenerisce il cane di casache un cristiano fuor dall’uscio: lo sapetebene com’è modesto e volgare il cuoredell’uomo, e della donna, o nostri fratellimaggiori, che ogni feccia da voi raschiasteper essere come vasi vuoti e mondia ricevere quella pioggia che il Cielomanda ogni istante ma è dai più male accolta.Non oso alzare gli occhi al bene supremo,più confidenza ho in voi, che come noi foste,non angeli ma fatti di carne, e forsepiù peccatori di noi, mediocri in tutto.Mi rivolgo ai vostri nomi fuori moda,perché se li leggiamo pur di sfuggitacontrollando la data di una scadenza,giorno dopo giorno, mese dopo mese,siamo sotto la muta benedizionedel pezzo di Cielo che è appeso in cucina.Marco Cipolliniwww.webalice.it/marcocipollini