Cultura & Società
Georgofili, un’Accademia dalla parte della terra
Ci rechiamo a trovarlo nella sede dell’accademia, quella torre de’ Pulci balzata suo malgrado agli onori delle cronache mondiali per l’attentato del 1993. Proprio questo ha dato visibilità a questa istituzione la cui secolare presenza in città era ignota non solo agli italiani ma anche alla maggior parte dei fiorentini. Riferendosi all’intervento dello Stato in quell’occasione, Scaramuzzi da una parte ne loda l’immediata e solidale partecipazione alla ricostruzione, dall’altra rileva che ora l’accademia è tornata ad avere l’attenzione che lo Stato riserva a tutte le altre organizzazioni culturali e scientifiche, cioè «abbastanza scarsa».
Ma perché ci dovrebbe essere un interesse particolare verso l’Accademia dei Georgofili? Che senso ha nel mondo d’oggi questa istituzione con i suoi 250 anni di vita e il suo nome dal significato un po’ oscuro?
Nata nel 1753 in epoca lorenese, protagonista di una rivoluzione intellettuale toscana che portò, fra l’altro, alle bonifiche in Maremma e in Valdichiana, l’Accademia dei Georgofili ha oggi lo stesso ruolo di ieri: «Raccogliere le idee, elaborarle e formulare ipotesi di soluzione a problemi sempre nuovi che ci vengono incontro». I metodi di lavoro, però, si sono adeguati ai tempi: per esempio, l’approccio multidisciplinare per affrontare lo stesso tema da punti di vista diversi è la conseguenza di una specializzazione sempre più stretta e approfondita che richiede una collaborazione di più menti. Così al posto delle classiche «letture» fra saggi che si tenevano presso l’accademia, si organizzano giornate di studio e dibattiti.
I problemi oggi sono molti e diversi, perché l’innovazione tecnologica ha una rapidità tale che l’ultimo mezzo secolo per l’agricoltura ha segnato una evoluzione maggiore che nei duemila anni precedenti. L’attività dell’Accademia si rende necessaria anche per le questioni legate alla globalizzazione. Questa, secondo Scaramuzzi, è «una realtà ormai esistente, irreversibile, destinata a portarci in un mondo diverso», provocando un livellamento, un appiattimento in tutto e per tutto. Proprio per ciò dobbiamo difendere la biodiversità, cioè l’esistenza di organismi viventi che abbiamo ereditato e che nella evoluzione si sono ridotti o moltiplicati. Non è una inutile perdita di tempo difendere il fagiolo zolfino o la pera cocomerina: sono patrimoni genetici. Dobbiamo essere consapevoli dell’importanza di questi e dobbiamo tutelarli perché domani, per un qualsiasi motivo potremmo averne bisogno.
Per fare un esempio, se un nuovo parassita distruggesse le colture, i caratteri genetici di resistenza da utilizzare contro questo parassita li potremmo trovare proprio nelle antiche colture locali. Se li perdessimo, resteremmo privi di armi che potrebbero rivelarsi importantissime. La tutela del fagiolo zolfino (tanto per fare un nome) è una difesa allo stesso tempo del patrimonio genetico, delle consuetudini e del buongusto. Non possiamo non considerare con grande favore ogni sforzo inteso a salvaguardare queste ricchezze: non è un lavoro inutile, ripete Scaramuzzi con passione.
Ma allo stesso tempo non dobbiamo nasconderci un’altra realtà e cioè che non essendo più le distanze un problema, le industrie alimentari, per esempio quelle della pasta, possono approvvigionarsi del grano su un mercato globale acquistandolo al prezzo più basso. E contro questo, non c’è fagiolo zolfino che tenga.
C’è il rischio di avere un appiattimento colturale con dei riflessi molto gravi perché l’umanità non si impensierisce più dei rischi alimentari. I georgofili si preoccupano di far capire che l’esistenza sul mercato mondiale di derrate alimentari di prodotti agricoli a costi più bassi, non deve far disarmare l’agricoltura in Italia e in Europa, perché dobbiamo potere essere in grado di far fronte a rischi legati a nuovi parassiti o a eventi climatici. Se questi distruggessero i raccolti per due-tre anni di seguito ci troveremmo senza scorte alimentari. Questa è una realtà che anche i politici hanno cancellato dalla loro mente e che invece deve essere ben presente. Il professore conclude che l’agricoltura non è solo fonte di alimenti ma è anche una indispensabile attività che tutela l’ambiente: per esempio, i contadini che, appena smetteva di piovere, andavano con la vanga a riaprire i fossetti curando così il decorso delle acque superficiali, evitavano con un lavoro sapiente e gratuito il dilavamento e l’erosione dei terreni, e i conseguenti dissesti idrogeologici e tragedie di varia natura. Né potrebbe essere l’attività pubblica a sopperire quella del privato (cioè del contadino) perché non ci sarebbe tempestività nell’intervento e i costi sarebbero insostenibili. Insomma, laddove l’agricoltura smette di essere, tanti guai emergono immediatamente.