Cultura & Società
«Sindrome di Peter Pan», bambini adulti e adulti bambini
Un giovane più grande, che lo conosce, mi ha detto che ha 11 anni. Lo incrocio ogni sabato pomeriggio, passandogli accanto e sentendomi attratto dalla sua maschera di imberbe smarrito, sostenuto da coetanei goffi nella loro pubblica ostentazione di puerili e dannose trasgressioni. Malattia di un’epoca.
Suo padre dov’è? Non so se esista né dove eventualmente abiti. Della madre il ragazzino ne dà notizia a una compagna che descrive la propria così: «Mia madre è bella, giovane, intelligente, fortunata. Tutti le fanno i complimenti. Se la gode. La invidio! Non sarò mai come lei! Mi vergogno di quello che provo » La tredicenne che dice questo condensa in due righe l’altra faccia simmetrica della malattia d’epoca: i «vecchi giovanili». «Ma come sei giovanile!», «no, come sei giovanile tu!». Questo dialogo non avviene nei parchi, spingendo carrozzine. Si snoda nei corridoi degli ospedali o delle università, nelle aule dei tribunali, passa per la buvette di Montecitorio, approda nelle assemblee delle associazioni di categoria.
Questa famiglia, a metà strada tra realtà e uno dei nostri romanzi o film contemporanei, offre un’immagine sdoppiata di un processo che si sta accelerando: comparsa precoce di taluni comportamenti e persistenza di altri in età avanzate. Se nei giovani adulti o negli adulti maturi molti ravvisano i comportamenti della cosiddetta sindrome di Peter Pan, è altrettanto constatabile un anticipo di comportamenti diversi nella preadolescenza e nell’infanzia.
La sindrome di Peter Pan preoccupa molti ricercatori. I dati che arrivano da recenti ricerche, svolte un po’ in tutta Europa, tratteggiano una percentuale crescente di persone della fascia di età tra i 30 e i 50 anni che esprimono resistenze alla crescita, angoscia per l’imminente o già raggiunta condizione di adulti, improbabili fughe regressive, in cui si condividono con i coetanei atteggiamenti e comportamenti nostalgici di tipo adolescenziale: ragazzate, zingarate.
Ma all’altro capo della vita, un pugno di mesi dopo la nascita, il costume muta con rapidità sorprendente. Queste madri e questi padri distratti, allevano i propri figli è il caso di dirlo perché nei casi presi in esame non si può parlare di educazione spesso concedendo loro l’anticipo di molte autonomie, consentendo ore e ore di tv o l’accesso a internet senza filtri o l’acquisto di tecnologie ignote, cominciando dai videogiochi di cui non si sono vagliati i contenuti. La chiamano autonomia precoce.
Si realizza con una nuova strana forma di vigilanza dei genitori: la Walt Disney ha messo sul mercato un telefonino con solo quattro tasti colorati: casa, babbo, mamma, nonni. Già lo usano e chiamano papà in ufficio dalla scuola materna. Io proporrei un nome più adeguato: irresponsabilità avanzata davanti a rischi precoci dagli esiti irreversibili. Il bambino toscano, morto qualche giorno fa, che si è trovato a giocare da solo in casa con la pistola carica del padre, lasciata a portata di mano, è una tragedia reale che si carica, al di là del fatto specifico, di una forza simbolica devastante.
Sono gli stessi giovani di 19 anni che raccontano il loro stupore davanti ai comportamenti di fratelli o amici più giovani di cinque anni. Si raffrontano e non regge un indicatore: si truccano prima, escono il sabato sera prima, tornano a casa dopo, parlano di esperienze sessuali «mordi e fuggi» che, anche se si realizzassero nella sola fantasia, inquietano. Questi giovani osservano, con stupore, quegli stessi genitori che alcuni anni addietro accompagnavano loro e li riprendevano in discoteca, magari uscendo di casa dopo mezzanotte, mezzi assonnati, che adesso, invece, dicono «va be’ se ti riaccompagnano gli amici basta che non bevano».
Questo processo duplice, apparentemente contraddittorio, potrebbe legittimare alcune previsioni, ma ormai le scienze sociali invitano alla prudenza sulle analisi di comportamenti con presunto valore predittivo.
Infatti la società appare tutta scomposta in modo inedito e i segmenti di vita ridisegnano i percorsi di maturazione e crescita attraverso un vasto campionario di «prove ed errori». È vero, le condizioni oggettive sono cambiate e continuano in questa trasformazione accelerata, ma «Natura non facit saltus» o, se si preferisce «C’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo». Come comporre questa nuova frattura fra «natura» e «cultura»? Come ascoltare e accogliere gli utili e necessari progressi di ciascuna età, contrastando rischi e pericoli devastanti sotto il profilo psicologico e sociale?
Forse i quarantenni potrebbero riappropriarsi del loro ruolo di adulti, di padri e di madri, capaci di coniugare attenzione per se stessi e vigilanza autentica per i propri figli.
E, forse, questi potrebbero smettere, a loro volta, di giocare il ruolo di goffi e pseudoemancipati.